L’addio del Cai a Max Gasser, l’ultimo romantico 

Si è spento a 63 anni dopo una malattia, era stato direttore  della Scuola di alpinismo. «Sempre alla ricerca dell’avventura»



BOLZANO. Si è spento nei giorni scorsi a soli 63 anni dopo una lunga malattia Max Gasser, alpinista, istruttore nazionale di alpinismo,direttore della scuola di alpinismo del CAI Alto Adige, e presenza “forte” del CAI Bolzano tra gli anni Settanta e Novanta. Nell’orazione funebre, che pubblichiamo di seguito, di Marco Martintoni e Roberto Rossin, c’è il ricordo di un amico carissimo ma anche di un alpinismo che, forse, non esiste più.

* * *Marco Martintoni. Erano gli anni 70. La capacità di un alpinista si misurava dal peso degli scarponi. Vacchetta rovesciata e Vibram. Pantaloni al ginocchio in lana, calzettoni, giacca rosso o arancio con i segni della doppia. Zaino. Le corde erano da 11 mm e da 40 metri. Chiodi e martello e moschettoni. Caschetto a scodella ed imbrago. Tutto qui. Mondo quasi tutto maschile. Ancora i Guido Rey ed ancora viva la rabbia di Walter Bonatti con Ardito Desio.

Di vie di roccia erano piene le pareti. Le classiche. Le meno classiche. Le impossibili. Nomi di spigoli, di pareti nord, di verticali che facevano tremare. Imprese epiche. Nomi di uomini. Forti. Ogni nome la sua via. La geografia. Di qua i verticalisti orientali. Di là i lunghe distanze occidentali. I transalpini. Poche regole. Rigide. Attrezzatura poca e abbigliamento zero. Pochi produttori. Cassin chiodi martelli e zaini. Stubai. CAMP. La Sportiva con gli Eiger blu. Millet.

Panini negli zaini, acqua limoni e zuccherini. Destrosio. Poche leghe e tanto ferro. Tutto era pesante. Tutto era fatica. Anche i maglioni fatti a mano dalla mamma o dalla nonna. E le lunghe libagioni alla sera. E canti. Di montagna. O degli Alpini. Tante “Valsugane” e “Quel Mazzolin di fiori”, e poche Joska La Rossa. Messe alpine e picozze della grande guerra. Perché poi c'era anche il ghiaccio, lo sci alpinismo, la speleologia. E una grande famiglia. Il CAI. Un po' di Alpenverein in Alto Adige. Un po' di SAT in Trentino. Tante barbe e pochi capelli lunghi. Un pianeta inesplorato, una colonia penale, un endemismo. Il mercato era in agguato. Guardava con attenzione a quel mondo. Mondo in fermento tra il resto. E non si era poi così pochi. Fu in uno di quei giorni lì che conobbi il Max. E che mi presentai alla Sede CAI in Piazza Erbe a fare tessera della Società ed iscrizione al corso roccia.

Bolzano aveva la prima palestra di roccia al coperto. Incominciò lì un'amicizia che prima da secondo poi da primo, legati da una corda/cordone ombelicale, a volte in moto, in macchina, in bicicletta anche, andò avanti finché mi trovò un giorno a spingerlo in carrozzella. Era ricoverato per una grave malattia degenerativa a Cornaiano. Cinema e pizza e discorsi soliti. Quei discorsi strani, che sanno di lune e di bivacchi. Che ti sembra di sentire rumore di chiodi alla cintura mentre scendi alla sera dalla Valle di Antermoia. Coi Nani di Laurino che commentano la giornata tra imbocchi di miniere e rododendri. E il sole che va giù, e le rocce che tirano al violetto. Senti anche un po' di freddo. Ma non era questo il tema. Torniamo in palestra. Torniamo ai fermenti. Stiamo diventando sport di massa e di élite. Le prime peduline leggere. Le leghe in alluminio. Zaini ergonomici. Giacche firmate. C'è chi rimane in po' indietro. Con Max no. Si cavalca il tutto. Si scala un po' qua un po' là. Lui sempre irrequieto. Insoddisfatto. Si provano manovre di soccorso. Si fanno noiose sedute di palestra. Si corre.

Si incomincia a sentirsi sicuri. Forti. Anche l'amicizia si fa forte. Fiducia. È un "vado io", l'altro a darti corda. È la mano sulla roccia. Prima torre del Vajolet. Spigolo Delago. E via. Questa è un po' la sintesi della storia. O come la ricordo io. O come mi piace ricordarla.

Si arrampica anche in tre a volte. Alternandosi in chi va su da primo. Che poi si ferma. E lascia il turno all'altro. Così lascio il turno a Roberto Rossin. Che andrà avanti con la sua di storia. Che continua ad essere un po' la storia di tutti noi.

Roberto Rossin. In effetti, quando conobbi Max e mi legai per la prima volta con lui il 2 agosto 1978, eravamo nel pieno dell' onda di cambiamento (perlomeno nel look...) che investiva anche l' alpinismo: dal grosso scarpone di pelle, si stava passando allo scarponcino semirigido e colorato, i pantaloni erano ancora alla zuava ma con pettorina, il criterio di arrampicata era ancora quello degli anni trenta con chiodatura abbondante e staffe ma si iniziava a tentare i passaggi in libera.

Presto sarebbero comparse le prime scarpette da arrampicata, seguite da una moltitudine di dadi a incastro e poi dalla magnesite; i friend erano ancora lontani dall' apparire!

Max svolgeva egregiamente all' interno del CAI attività di rappresentanza e di valorizzazione dell'alpinismo e degli alpinisti; era direttore della Scuola di Alpinismo e dei corsi roccia ed ottimo trascinatore.

Io, a quel tempo, ero fuori dal CAI (il '68 mi aveva fatto tagliare molti ponti con il passato, compresa l' adesione al sodalizio); fu Max a chiamarmi, proponendomi una arrampicata assieme: la Vinatzer al Sass de la Luesa. Non ci conoscevamo e così, magari pensandomi più progressista e non volendo apparire antico ai miei occhi, calzava un paio di jeans (fighi ma scomodi , non erano quelli morbidi di oggi) corredati da un paio di simpatiche bretelle. Si accorse che io ero legato di più al passato di quanto pensasse e già la volta dopo aveva rimesso i pantaloni alla zuava! La via che mi propose era in linea con tutte le altre che successivamente scalammo coerenti con il suo carattere romantico sempre alla ricerca dell'avventura e dell'esplorazione; realizzate dai grandi maestri degli anni trenta con arrampicata libera portata ai massimi livelli possibili per quei tempi. Ma non solo; dovevano essere anche isolate, quasi dimenticate e ciò ne aumentava il fascino e... l' ingaggio.

Fu così per tutte le vie di Vinatzer compresa lo Stevia, poi la nord della Grande di Lavaredo, la Stoesser lungo la vasta parete della Tofana di Rozes, le temibili vie del bolzanino Eisenstecken nel Catinaccio così come quelle di Carlesso e Soldà nelle Piccole Dolomiti, qualche puntata nel Fleischbank per mettere le mani sulle vie aperte dalla "scuola di Monaco" e poi la pressoché sconosciuta Detassis alla Presanella e la romantica "via della giovinezza" alla Cima Una nelle dolomiti di Sesto di Hans e Paula Steger.

Romantica si fa per dire: all' alba una marcia di avvicinamento infinita, 800 metri di parete tutta da scoprire e un ritorno a sera tardi. Quel primo giorno, dopo aver salito la Vinatzer al Sass de la Luesa e arrivati in cima al rif. Pissadù, Max mi propose di scendere non dalla comoda val Setùs ma dalla ferrata Tridentina visto che non l' aveva mai fatta; non si faceva mancare proprio niente in quanto a sofferenza. Così, visto che neppure io l' avevo mai fatta, "sciogliemmo" le braccia in discesa.

Max mi riportò nel CAI dove, assieme ad altri ed in particolare con Lorenzo Zampatti, portammo a termine delle bellissime annate alpinistiche. Formidabili quei due, nati entrambi sotto il segno dell'ariete; entrambi fortissimi, modesti e generosi, sempre pronti a tenderti la mano o a farsi da parte se necessario.

Mi mancate tanto...ci mancano tanto!













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