La vittoria di Tamara Fermarsi in tempo

È la montagna a decidere, bisogna saper rinunciare


di Augusto Golin


BOLZANO. L’alpinismo invernale nasce come sci-alpinismo, con un accento maggiore sulla pratica dello sci, e quindi sulle conseguenti discese in un ambiente innevato e vergine, piuttosto che sul piano alpinistico.

Poi tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento si cominciano a salire in inverno i quattromila più facili delle Alpi.

Una seconda conquista delle Alpi, la definisce Marcel Kurz in un bel libro del 1925 “Alpinismo invernale” ripubblicato nel 1994 dalla Vivalda Ed. di Torino. Più tardi, in particolare nel secondo dopoguerra, arrivano le prime ripetizioni delle vie di arrampicata, più tecniche, effettuate nel periodo invernale.

Diverso è il discorso per i grandi 8.000 della Terra dove all’appello mancavano, fino all’altro ieri, solo due dei grandi colossi, il K2 e il Nanga Parbat salito appunto da Simone Moro, Alex Txicon e Ali Sadpara. In questo campo gli specialisti erano sempre stati i polacchi che avevano fino a poco tempo fa nel loro palmares tutti gli ottomila conquistati in inverno.

A loro si sono aggiunti poi Simone Moro e Denis Urubko. Ma per i polacchi, per loro stessa ammissione, era una questione economica, erano gli anni 80, quelli attorno agli anni della caduta del Muro, permessi meno cari e disoccupazione in patria negli stessi mesi.

Ma a questo punto vale la pena fare alcune considerazioni.

A parte dell’indubbie qualità richieste da chi si accinge a queste imprese, un ottomila si sale solo se le condizioni della montagna lo permettono e significa tempo buono o medio buono per un periodo sufficiente, anche di pochi giorni, scarse nevicate, estate, inverno, primavera o autunno che sia. Questo vale a maggior ragione anche per chi sale le montagne d’inverno. Nessuno ha affrontato una salita nel mezzo di una valanga, anche se Simone Moro è sopravvissuto a una che ha ucciso il suo compagno Anatoli Boukreev in un tentativo all’Annapurna. Di morti è piena la storia dell’alpinismo himalayano, estivo o invernale. Si può farne anche una questione statistica, nel tal periodo nevica di meno o il meteo si risolve al bello in tempi più brevi. Si sale quando la montagna, o meglio le condizioni della montagna, lo permettono. Se l’inverno è inverno vero, temperature polari, forti nevicate, brutto tempo, venti infernali, valanghe, non si sale. A meno che non si rischi di lasciare in montagna lo zaino e la vita.

A scrivere queste cose mi è venuto in mente un romanzo meno noto di Joseph Conrad “Tifone” (meno noto di “Cuore di tenebra” per capirci), dove il capitano Mac Whirr snobba i suoi colleghi che affermano di aver affrontato con le loro navi i peggiori uragani negli oceani, quando in realtà facevano delle grandi deviazioni per tenersi lontani da loro. Quindi non potevano dire esattamente quanto erano tremendi questi uragani che avevano evitato. Perciò lui, il capitano Mac Whirr, con la sua nave Nan-Shan, l’uragano lo avrebbe affrontato di petto o meglio di prua. La storia andò a finire che raggiunse sì il porto di Fu-chou, nei lontani Mar della Cina, ma con una nave semi distrutta, alcuni membri dell’equipaggio dispersi in mare e gran parte del carico perduto.

Ecco sugli ottomila è un po’ così: non si riesce a salire all’interno dell’uragano o della valanga. Si aspetta al campo base che il tempo si stabilizzi almeno per quello che si chiama una finestra di bel tempo che i meteorologi, magari da Innsbruck, annunciano con un breve anticipo. Se la condizione fisica è ancora buona, se i campi intermedi predisposti hanno tenuto alle bufere, le possibilità aumentano e avvicinano il successo. Chi è tornato a casa prima perché impegni diversi lo chiamavano, perché aveva finito i soldi o perché era successo qualche cosa di storto all’interno del gruppo (e Daniele Nardi ha promesso che ci spiegherà a cos’è dovuto il suo ritorno anticipato), la cima per loro si allontana e magari si tornerà il prossimo anno, sperando nella finestra giusta.

Questo nulla toglie al valore della salita invernale. Che Tamara Lunger abbia desistito a pochi passi dalla cima dimostra che non si tratta di una passeggiata, ma forzare la salita spesso può costare caro a quelle altezze. E saper rinunciare è un segno di maturità. In un precedente tentativo invernale sempre al Nanga Parbat durante un collegamento via satellite con Simone Moro dal campo base, l’alpinista aveva corretto il messaggio augurale del giornalista che lo chiamava, dal tradizionale “in bocca al lupo” a quello più consono “porta a casa lo zaino”. Questa espressione, che Simone Moro ha definito di aerea bergamasca, ha origini chiare mentre quella del lupo non si sa bene da dove abbia origine. E se si riesce a portare a casa lo zaino è un buon segno e la montagna rimane là ad aspettare, ignara dei nostri sforzi.

In ogni caso bentornati a valle, Simone e Tamara.

©RIPRODUZIONE RISERVATA













Altre notizie

Attualità