Morandi, una vita da giornalista «Oggi aiuto i malati»

A 85 anni fa il volontario al reparto di Oncologia con l’associazione donatori di musica: «Una rivelazione»



BOLZANO. Silvano Morandi ha 85 anni. Compiuti ieri. Ma quando racconta di quel giorno di 60 anni fa nel lungolago si alza sulla sedia come risalisse sulla sua Vespa. "L'ho inseguito da Riva fino a Tuscolano, lui in auto blu e io sotto la pioggia...". Lui chi? "Ma Arturo Toscanini! Sapevo che era in vacanza al Garda. C'era anche Wally, la figlia. Il maestro non voleva dare interviste quando non era a Milano. Mai. Poi l'ho raggiunto, mi ha visto tutto zuppo e allora mi ha lasciato pure l'autografo. Avrò avuto 18 anni". Silvano Morandi è un giornalista. Ha iniziato a Riva, dove ha fatto le scuole, lì e a Rovereto, poi è venuto a Bolzano a guidare la redazione de L’Adige, poi, poco prima che chiudesse, negli anni Ottanta è finito in Rai, in Piazza Mazzini. La generazione dei Sitton, dei Frangipane. Taccuino in mano e via, senza traccheggiare. Adesso Morandi fa altre cose ma sempre come salisse in Vespa, al volo. "Lui, da giornalista in pensione, sembrava un leone in gabbia - racconta l'amica Fabrizia Neirozzi, impegnata con lui nel volontariato - e allora gli ho detto: guarda qui, guarda quanto c'è da fare". Qui erano le case di riposo. Iniziando da via della Roggia. Qui, adesso, è il reparto di Oncologia del San Maurizio. E il suo giardino d'inverno. Morandi con Fabrizia sono braccio, mente e tutto il resto di "Donatori di musica". Con tanti altri volontari senza orario. Si danno da fare perchè i malati si tolgano il pigiama, si mettano la camicia bianca e, ascoltando i concerti, e stando insieme, possano trovare l'entusiasmo per capire che la vita è ancora lì che li aspetta.

Perché un giornalista si mette a fare volontariato?

Ho sempre avuto la passione per la gente. È questa la molla. Volere starci in mezzo. E poi, dico, dopo 44 anni a dar notizie non è che uno si ferma e stop.

E dunque?

Prima ho scoperto gli anziani. Quelli che non possono muoversi troppo tra la gente. Perché non hanno voglia o non possono.

Case di riposo?

Sì, ma sono posti dove si possono fare cose che uno non pensa. Così Fabrizia, anche lei dopo una vita in banca, mi ha detto: tu, che sei un betonego, datti da fare...

Betonego?

E' uno che mette sempre il naso. La betonega... Quando ero ragazzo tenevo una rubrica sul giornale. Si intitolava: "Il Betonegot". Quattro colonne. Tra parentesi : della val di Ledro. Mi impicciavo di tutto.

E ha continuato a farlo...

Per quello che potevo. Alla casi di riposo mi portavo i giornali della mattina e li leggevo a voce alta. Poi si discuteva: i partiti, la Svp, il traffico, i morti....

Poi, sette anni fa, altra svolta.

Ho saputo che a Oncologia, al San Maurizio, operava un'associazione che non avevo mai sentito, i donatori di musica. E' stata una rivelazione.

Del tipo?

Che portare musica, concerti, far cantare i cori è una bella cosa per i ricoverati. E mettere insieme un rinfresco alla fine, e poi gli addobbi, spostare il pianoforte...

A 85 anni...

E se no chi lo fa? L'idea, anche del primario, Claudio Graiff, è che se uno è malato non deve fare il malato.

E che cosa?

Togliersi le ciabatte e provare a stare in mezzo agli altri. Chi ci da una mano, anche in denaro visto che l'Asl non offre più niente, sono infatti proprio gli ex malati oncologici. Come per dire: la vita è lì che aspetta. E c'è un giardino. Lo cura un ex malato. Una volta mi ha detto: sa io facevo il giardiniere... E io: perché dici facevo? Tu fai il giardiniere.

E i giornali?

Li leggo sempre. Ma tutto sta cambiando anche nella professione. Quando ho iniziato c'era Nane Guardini a Riva. Io sono stato 10 anni senza contratto. Una volta detti la notizia di un ballo agli Olivi: beh, me lo censurarono. C'era un monsignore molto attivo in zona. I giornali non dovevano occuparsi di cose del genere. Soprattutto quelli cattolici...

E invece?

Io ero un betonego. Anche se cristiano. Ma ignaro di tutto. Non sapevo scrivere a macchina. Quando mi diedero l'Olivetti ho passato tre notti a casa a battere sui tasti e gli articoli, prima, li scrivevo a matita, sui foglietti. Così, se sbagliavo... Anche quella volta.

Quale?

C'era Werher von Braun sul lago. Quello dei missili. Era appena stato fatto scappare dalla Germania negli Stati Uniti. Era lì con la mamma, uguale a lui. Ma non sapevo l'inglese. E neanche il tedesco.

E allora?

Ho pagato un cameriere del suo albergo, a Sirmione. Gli ho detto: tieni qui, e fagli queste domande. Ma von Braun si faceva capire lo stesso.

E i soldi?

Li ho lasciati comunque al cameriere. Quel mese sono andato ancora in rosso.

(p.ca.)













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