Nomi e scuola, la Svp non dica solo no


Sergio Baraldi


Dopo la morte di Magnago, il presidente Durnwalder e il segretario politico della Svp, Theiner, intervistati dal nostro giornale, fecero delle considerazioni importanti sulla necessità di aprire una nuova stagione della convivenza. L’emozione per la morte del costruttore dell’autonomia li aveva spinti a riflettere sul fatto che l’apertura di una fase nuova fosse il modo migliore per ricordare Magnago e riconoscergli i suoi meriti storici. Non è passato molto tempo, e siamo qui a chiederci se quelle parole siano state dimenticate. Alcune vicende, differenti tra loro, ma legate dalla funzione che svolgono nell’immaginare la società di domani, che poi è oggi, vale a dire la storia dei toponimi e della sperimentazione nella scuola, registrano più il ritorno di vecchi fantasmi che l’avvento di una nuova mentalità che, pure, Durnwalder e Theiner avevano riconosciuto come indispensabile in Alto Adige. E’ vero che occorrono gesti concreti da parte di tutti, anche dagli italiani, per iniziare una nuova stagione. Tuttavia, la Svp è il partito maggiore, di conseguenza è quello che ha maggiori responsabilità. E un rischio, la Svp lo corre, se lascia troppo spazio ai suoi istinti e al suo tatticismo: quello di diventare il partito dei no. Il partito cioè che, di fronte ai problemi, si chiude in una politica identitaria che, a sua volta, spinge verso una posizione di resistenza, di difesa.
Una scelta che postula l’idea di una società tedesca che si percepisce come minoranza che ha bisogno di tutela, e non invece come una componente maggioritaria e dinamica che aspira a giocare un ruolo moderno. Una simile politica, forse, risponde alla convinzione che conservare è il modo migliore per riaggregare un consenso che si è logorato, ma che impedisce di vedere il nuovo campo della politica oggi in Alto Adige. Prendiamo i toponimi. Una forzatura comporta il pericolo di innescare un conflitto “nazionalista”, suscitando sentimenti anti tedeschi nel mondo italiano, sentimenti anti italiani nel mondo tedesco. Come osserva nel suo interessante articolo di oggi il prof. Fazzi, rischiamo di rimettere in circolo la politica della paura, utilizzando i toponomi come simboli nazionalisti. In un importante libro del’92, “Il nuovo disordine mondiale”, lo storico Anderson aveva prefigurato i pericoli di comunità che si aggrappano alle proprie identità, che ripescano nella propria memoria un esclusivo e aggressivo senso di appartenenza. C’è bisogno di tornare a queste tensioni in Alto Adige? E’ comprensibile che il governo italiano faccia presente alla Provincia la necessità di rispettare il bilinguismo anche nelle indicazioni stradali, in una terra che, come ricordava ieri Campostrini, è plurilingue. Ma forse più che un approccio “nazionalista”, più che di un confronto muscolare tra autorità, sarebbe utile un confronto che consenta di far prevalere le ragioni dell’integrazione e del reciproco rispetto. Il governo italiano dovrebbe comprendere che su questo terreno delicato non si può procedere per ultimatum, mentre servirebbe una maggiore intelligenza della situazione locale. D’altra parte, la Svp non può pretendere di far valere la “sua” interpretazione delle norme dello Statuto, che i giuristi smentiscono, e che prefigura una sorta di diritto parallelo. La conseguenza è che la Svp finisce per alimentare l’antico sospetto che punti a un’assimiliazione, non a un’integrazione. Questo sarebbe il momento giusto per il pragmatismo di Durnwalder, sempre che l’interessato ne pratichi ancora le virtù.
Un problema simile è quello della scuola. La scuola italiana ha avviato una sperimentazione trilingue con l’inglese che ora non riesce a proseguire. E’ un problema “solo” italiano? O invece chi governa dovrebbe riflettere sul fatto che si tratta di un’eccellenza che interessa tutte le scuole, tutta la comunità, senza distinzione di gruppo linguistico? In questa prospettiva, quel progetto potrebbe diventare un simbolo della qualificazione del territorio, come spiega bene il prof. Palermo nel suo articolo. Allora ha senso unire le forze e allargare i confini della sperimentazione: la proposta del vicepresidente Tommasini meriterebbe un ascolto più attento. Del resto, se l’università, giustamente, si struttura per essere un’università trilingue, non si devono preparare gli studenti per questo sbocco? E non si tratta di un interesse sia delle famiglie tedesche sia di quelle italiane o mistilingue? Qui affiora il punto decisivo. Se continuiamo a leggere le sfide che si presentano in termini d’identità etnica, di paura, vincerà l’immobilismo. Resteremo prigionieri delle categorie del Novecento, a cominciare dalla separazione. Chi pensa di resistere perché nulla cambi, in una versione tirolese del Gattopardo, forse s’illude, perché le cose cambiano anche senza di noi. Se invece decifriamo le sfide secondo una diversa visione, quella della libertà e dei diritti, allora una nuova stagione si potrà aprire per tutti. Ciò che è in questione in Alto Adige, dunque, è la capacità di rappresentare in termini nuovi i rapporti tra gruppi linguistici, vale a dire in termini di con-vivenza, e di organizzare un pensiero e una strategia che sostituisca all’etnia (alla paura) la libertà (la fiducia) in una società plurale. E’ questo il nuovo campo della politica dopo Magnago. La società ne sembra più consapevole dei suoi rappresentanti. I cittadini domandano un cambiamento nell’equilibrio. I no del passato non preparano il futuro.

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