Post-Covid, l’orgoglio di chi lavora per la Cultura 

Confronto alla Casa della Pesa. Per mesi i lavoratori nella totale incertezza e precarietà I protagonisti: «Ma ora la gente ha capito che dietro un’opera d’arte c’è tanto lavoro sommerso»


Tizian A Carrozza


Bolzano. Il Covid ha colpito duro tutto il mondo della cultura: per mesi i lavoratori e le lavoratrici del settore hanno vissuto nella totale incertezza e precarietà. Ma l’assenza forzata di tanti eventi, ha anche fatto capire quanto sia fondamentale e quanto la sua assenza sia devastante per tutta la collettività. «La gente ha capito che dietro un’opera d’arte c’è un mondo sommerso di lavoro appassionato è duro», in queste parole c’è tutto il senso dell’incontro “Qualcosa si muove” promosso da Weih Station alla Casa della Pesa di piazza del Grano. A fare gli onori di casa sono state Valentina Cramerotti e Roberta Pedrini. “Weigh Station” è una fabbrica creativa, sostenuta dalla Provincia, nata nel 2014 per supportare il settore delle imprese culturali e dei freelancers che operano in questi ambiti in Alto Adige. Presso la Casa della pesa, hanno dato il via ad un dibattito tra tutti gli operatori e lavoratori della cultura. Presenti al talk Eleonora Castagna, settore arte contemporanea, Sabrina Fraternali e Silvia Dezulian, per i lavoratori della danza. Hanno partecipato online Manuela Buttiglioni e Irene Russolillo.

Giovani, intraprendenti, coraggiose si presentano così. Orgogliose di rappresentare tutti coloro che lavorano in questo settore: fotografi, tecnici, grafici, pittori, coreografi. Lavorano nell’ambito della creatività e raccontano la loro storia fatta di formazione e decennale. Eppure sono alla ricerca di un'identità e non perché non ce l’abbiano. I problemi erano già presenti prima del lockdown, che non ha fatto altro che rafforzare la loro tenacia. Hanno ounito le loro voci dando vita ad AWI, Art Workers Italia, per coordinarsi e rilanciare. «Dietro ogni opera c’è la nostra anima», ribadiscono. L’anima in cambio di una lotta, una lotta storica che affonda le sue radici già negli anni della formazione. Anni di sacrificio: studiano nelle accademie, si specializzano, fanno interminabili tirocini, conoscono le lingue, vanno all'estero, tornano in Italia e trovano un “terreno dissestato”, come lo definisce Eleonora Castagna. Già, perché soprattutto in Italia, il riconoscimento dei lavoratori nell’arte contemporanea è ancora un miraggio. In molti paesi, raccontano, e in particolare nei paesi del Nord Europa, esistono già da tempo sindacati degli artisti. E se in Italia già hanno vita difficile, sottolineano con amara ironia, nelle realtà più piccole la questione è ancora più spinosa. «Noi lavoriamo con il corpo e il corpo va allenato. Abbiamo bisogno di uno spazio fisico - interviene Silvia Dezulian -. In una città grande come Milano il problema dello spazio è meno frequente ma nelle piccole città spesso manca anche quello».

«A livello locale abbiamo tre lingue ma la nostra voce non arriva», interviene Sabrina Fraternali. Eppure qualcosa si sta muovendo: Art Workers e Coordinamento Danza vogliono agitare le acque per mettere in luce questo mondo sommerso. Entrambi sono gruppi informali, apartitici, rache hanno il compito di mettere in relazione tutte le situazioni e le problematiche locali, portando la cultura tra la gente, nel quotidiano. Si affrontano temi che già si conoscevano. Banale sarebbe dire “l’arte non paga” ma gli artisti sono artisti e rimangono tali anche se non “conviene”. Hanno una conoscenza del mondo a tutto tondo ma il mondo non li conosce o meglio non li “riconosce”. «Il pubblico - sottolineano - non immagina le difficoltà, i sacrifici. Il pubblico partecipa, si entusiasma, ma ignora quanto lavoro ci sia dietro. Non viene riconosciuto un codice etico. Il mondo degli artisti comunica, diffonde la cultura, parla con il corpo, con i colori, con le note, con le parole, parla in mille modi ma è non ascoltato se non per quell’attimo dello spettacolo». L’emergenza Covid ha dato loro un altoparlante e anche la forza di urlare quello prima era spesso solo una “lamentela da post”. Urlano sia a livello locale ma soprattutto a livello nazionale. Sono in mille ora gli iscritti all’AWI, tutti fiduciosi: sperano in un pubblico meno elitario e più educato alla cultura, si augurano maggiore presenza delle istituzioni.















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