«Siamo trattati come numeri»

I dipendenti dell’ospedale vivono nella costante incertezza del futuro: «Ma qui c’è alta qualità»


di Aldo De Pellegrin


SAN CANDIDO. Come si vive, senza sapere cosa ti aspetta domani? Senza sapere se fra sei mesi lavorerai ancora al tuo posto e cosa ne sarà della tua professione. Lo abbiamo chiesto al personale dell'ospedale di San Candido, che da più di dieci anni, teme seriamente per il proprio domani fra chiusure annunciate e riduzioni di organici. Sara Zambelli Pavà è dal 2001 che fa l'ostetrica all'ospedale: «Per noi lavorare in queste condizioni di incertezza è il peggio che ci possa essere. Per giustificarla ci dicono anche che non facciamo bene il nostro lavoro mentre invece seguiamo scrupolosamente le linee guida che in Provincia sono uguali per tutti. Ancor peggio è che oggi si sta facendo passare l'idea che San Candido sia un ospedale già chiuso, mentre noi vorremmo ribadire che ci siamo ancora e, anche per quanto riguarda ostetricia e ginecologia, siamo operativi in tutto e per tutto. Sono di qui e sono contenta di poter lavorare in ospedale, dove lavora anche il mio compagno. Ma il non sapere cosa ci aspetta è snervante e demotivante. Continuiamo a dare il nostro meglio perché ci identifichiamo con il "nostro" ospedale, ma è frustrante non sapere neppure cos'hanno in mente per noi. Stiamo pensando di prendere casa, ma dove lo facciamo? A San Candido per poi fare i pendolari verso Brunico o Bolzano? O in quale altro posto? Finora di cosa ci aspetta non ci hanno detto nulla. Solo promesse, ma in questi anni, di promesse ne ho sentite tante. Troppe!».

Da 19 anni Christine Egarter è infermiera in ginecologia: «Lavoriamo con alta qualità. Anche se siamo piccoli, siamo un team competente che lavora bene e i riscontri non mancano. Vogliamo continuare così, offrendo ai pazienti quella qualità che tutti loro ci riconoscono. Un'altra cosa che vogliamo dire alle tante pazienti incinte che ci chiedono se potranno partorire da noi, è che San Candido è ancora un ospedale aperto e funzionante e speriamo che resti tale». La chiusura di un reparto non è un evento fine a se stesso, ma l'inizio di una discesa pericolosa. «È questo che temiamo - a parlare è Waltraud Neunhäuserer, dal 1993 in amministrazione a San Candido - e che ci fa paura. Si inizia da un reparto e poi si va avanti. Cosa resta? Non si sa, e non ce lo vogliono dire. Oltre che preoccupati per dove andremo a lavorare, siamo anche molto delusi: i nostri riscontri parlano di qualità del nostro lavoro, ma ultimamente sembra che siano solo le statistiche ad avere valore, ad essere il fondamento di tutto. Ricordo che i pazienti sono persone, non numeri». In una struttura che si vuole smantellare, anche l'amministrazione è a rischio. A San Candido, da 12 anni la dirige Renate Plitzner: «Mi preme ribadire che le differenze di costi fra San Candido e gli altri ospedali non sono così esorbitanti come si è detto e scritto. A noi risultano cifre molto inferiori. Sono qui da 12 anni ed è la terza riforma che vivo senza sapere come andrà a finire. Delusione, preoccupazione, incertezza e anche rabbia sono ormai sentimenti che ci accompagnano quotidianamente nel lavoro». Molta preoccupazione esprime anche Brigitte Horvat, da 10 anni coordinatrice del pronto soccorso, altro servizio a rischio: «Il nostro reparto sopravviverà? E come? I pazienti che arrivano da noi hanno bisogno di tutti i servizi, dalla radiologia all'anestesia alla chirurgia ed al resto. Se ci chiudono, li manderemo tutti a Brunico? »













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