STORIE/ La fotografa delle rockstar

La bolzanina Silva Rotelli, la favorita di Cure e Pearl Jam


Fabio Zamboni


BOLZANO. Ha un solo vezzo, molto femminile e apparentemente ingiustificato: quello di non svelare l'età. Eppure Silva Rotelli, giovane fotografa bolzanina, non è una che si nasconde. In un'ora di chiacchierata, racconta il suo tortuoso percorso scolastico e professionale lasciando affiorare anche tutta la sensibilità e la passione necessarie a far convergere due mondi paralleli come la fotografia e la psicologia.

La sua è una storia originale, che piacerebbe persino alle ministre Cancellieri e Fornero, quelle che demonizzano il posto fisso. Infatti Silva, di fisso, ha solo il chiodo delle fotografia come strumento di comunicazione e di conoscenza di sé e dell'altro. Un chiodo fisso che la porta a indagare la società senza pensare a una carriera o a un punto d'arrivo. Il "viaggio" come fine, senza una meta che non sia quella dell'esplorazione continua delle possibilità del suo lavoro. «Sono nata a Bolzano, figlia unica, purtroppo. Vivo un po' qui e un po' dove mi porta il mio lavoro, con base a Milano.

Quando posso sto con mio padre, in Via Resia, ma a Bolzano passo la maggior parte del mio tempo in uno studio in Piazza delle Erbe che condivido con altre professioniste. Mi piace lavorare in team, a Bolzano lo faccio spesso con altri giovani: Giulia De Biasi per il trucco, Davide Falzone per la grafica, Andrea Polato per la musica, Lorena La Rocca per la regia. E con due attrici/performer: Anika Schlüderbacher e Corinna Conci. Perché amo i progetti interdisciplinari. Ah, li citi tutti, per favore». Ma dove inizia l'avventura? Marcelline, poi Classico linguistico al Carducci.

Quindi Psicologia a Bologna, ma prima di finire mi sono iscritta all'Istituto italiano di Fotografia di Milano, lasciando in sospeso l'Università che ho ripreso ora: mi manca un esame per laurearmi in Psicologia all'Università che i Salesiani gestiscono, meravigliosamente, a Mestre. Fotografia: perché? Volevo trovare il mio modo di esprimermi, di mettermi in relazione con gli altri, di rendermi utile. E la "mia" via è la fototerapia. Non me l'hanno insegnata a scuola, l'ho capito da sola e ho trovato poi ampi riscontri, mica l'ho inventata io. La chiave di tutto è un supervisore, un nume tutelare, lo psicoanalista trentino Pasquale Pezzani, un amico di famiglia. È il "vecchio saggio", più saggio che vecchio a dire la verità. Adesso sono felice, passando attraverso la fotografia e la musica.

Devo molto anche ad Emo Magosso, presidente del Fotoclub di Bolzano, che mi ha fatto scoprire il mondo della fotografia analogica, della pellicola, della camera oscura. Un percorso complesso. Forse, ma a Milano sono partita subito bene, facendomi notare nel mondo della musica: ho incominciato a frequentare concerti e festival e quando sono arrivati i Cure in Italia, sette o otto anni or sono, ho mandato il mio book all'organizzatore e mi hanno ingaggiata: li ho seguiti per tutto il tour, anche a Berlino. E le mie foto sono finite sulla biografia dei Cure scritta da un giornalista francese, tradotta anche in inglese.

È mia anche la copertina. Altre immagini sono finite poi su riviste come Rockstar, Rolling Stone, Mucchio Selvaggio e Jam, con la quale la collaborazione continua. Altre immagini appaiono nei booklet dei cd di Paolo Benvegnù, di Nada, di Mauro Ermanno Giovanardi dei La Crus. È mia anche la copertina del recente libro sui Marlene Kuntz, con un bel Godano in bianco e nero durante un concerto.

Gli artisti più interessanti? Uno che adoro musicalmente è Antony & The Johnsons, ma il personaggio più interessante che ho conosciuto è certamente il chitarrista dei Cure, Perry Bamonte. È venuto anche a Bolzano a trovarmi, siamo amici. Solo amici? Assolutamente sì: non confondere lavoro e sentimenti è stata ed è la mia prima regola. Musica e cos'altro? A Bolzano lavoro molto con il Servizio giovani della Provincia, che mi affida progetti molto interessanti e molto liberi. Uno in particolare, "Resistenze" - la prossima edizione sarà a fine aprile -, mi impegna parecchio e mi gratifica.

Ho fatto ritratti dedicati alle resistenze di tutti i generi, dal partigiano Lionello Bertoldi alla famiglia impegnata nelle adozioni, alla suora di clausura. L'immagine è abbinata a un messaggio che loro scrivono e che nasce da un lavoro di "scavo" fatto assieme. Lì applico la fototerapia, che utilizzo anche per un progetto che si chiama "Giovani e anziani" e che è costituito da "dialoghi" fotografici: un anziano racconta la propria vita attraverso immagini e parole. E non ha idea di quanti giovani ci sono disposti ad ascoltare storie di anziani. Una bella esperienza. Prevale il bianco e nero. Per me il bianco e nero è il colore della musica, perché è una scelta che mi consente di fare più ricerca e meno documentazione.

È diventato il mio stile, e musicisti e riviste apprezzano proprio questo, il mio modo di fare bianconero. Adoro partire dal nero ed estrarre l'immagine da lì. Potremmo definirla psicofotografa, o fototerapeuta. Il secondo rende bene l'idea. E del resto quando chiedi a una persona di farsi fotografare ma anche di scrivere qualche cosa di sé da raccontare agli altri, è come fare una seduta di psicoterapia, con la macchina fotografica al posto del registratore. Guadagna abbastanza?

A volte meno di quello che dovrei, almeno in proporzione all'impegno. Lavoro spesso anche di notte, ma sono felice così. Un sogno? Aprire una scuola di fotografia qui in Alto Adige. Ma del tipo che dico io: fototerapia, insomma.













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