Umberto Gentili, unico italiano di Appiano alla guida di un maso

Il contadino originario di Mattarello in Trentino è arrivato nel 1935


di Antonella Mattioli


APPIANO. «Questa terra ce la siamo conquistata centimetro per centimetro, lavorando dall'alba al tramonto e dovendo fare i conti con la tempesta che in più occasioni ci ha distrutto l'intero raccolto: allora non c’erano né reti di protezione né assicurazioni. Quella del 1966 è stata una grandinata devastante: per tre anni non abbiamo raccolto neppure un chicco d’uva. Tante volte quando mi guardo intorno, mi chiedo: come abbiamo fatto a tirare avanti e trasformare questo pezzo di terra a ridosso della montagna in un bel appezzamento di viti e mele?». È stata dura ma Umberto Gentili, sua moglie Emilia e i cinque figli Alberto, Claudio, Maria Carmen, Elena e Rita non hanno mai pensato di lasciare il maso nella frazione Monte di Appiano.

Oggi Umberto Gentili è l’ultimo «Bauer» italiano in tutto l'Oltradige a gestire assieme ai figli un maso. Il contadino, che porta alla grande i suoi 88 anni, è originario di Mattarello, sua moglie Emilia, 85 anni e una grande appassione per bocce e briscola, viene da Palù in Val di Cembra, aveva dodici anni quando è rimasta orfana di entrambi i genitori .

Ma come sono arrivati in quel maso, le cui fondamenta risalgono al 1400?

«La famiglia di mio padre - racconta Gentili - era stata messa in ginocchio dalla crisi del ’29 e così, quando nel 1935, avevano saputo che in Alto Adige l’Ente Tre Venezie mettevano a disposizione i masi degli optanti si era fatto avanti. Assieme a suo fratello aveva girato due giorni per Bassa Atesina e Oltradige: c’erano più masi tra cui scegliere».

E alla fine suo padre ha ottenuto il maso nella frazione Monte di Appiano.

«Sì, ma, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, non è stato facile. Mio padre si era comprato la camicia nera per convincere il funzionario dell’Ufficio. All’Ente Tre Venezie preferivano assegnare i masi a contadini che arrivavano dalle vecchie province per favorire il processo di italianizzazione dell’Alto Adige, piuttosto che a trentini che erano cresciuti sotto l’Austria ».

Che anno era quando lei è arrivato qui?

«Era il 1935 e avevo 11 anni. C’era il vecchio maso e intorno la campagna dove si seminava frumento, segala, patate. Non c’era né acqua né luce. In particolare la mancanza della luce spaventò mia madre che faceva la sarta: alla fine comunque si arrangiarono in qualche modo».

L’operazione di italianizzazione voluta da Mussolini aveva portato nell’Oltradige altri contadini orginari in particolare del Veneto.

«Il maso di fronte al nostro è abitato da una famiglia di madrelingua tedesca con cui siamo sempre andati d’accordo. La Katakombenschule era laggiù in fondo alla strada, nessuno di noi però si è mai sognato di fare la spia. In zona allora saranno stati una quindicina i masi gestiti da italiani. Il fratello di mio padre ne aveva uno a San Paolo».

Oggi non c’è più nessuno.

«No. Sono tutti tornati nelle terre d’origine. Anche perché la Provincia ha favorito il controesodo degli italiani e il ritorno dei sudtirolesi nei masi».

Anche il suo maso era stato di proprietà di un optante?

«No. Questo maso ha avuto una storia particolare. Ha avuto quattro diversi proprietari. L’ultimo, anche lui colpito dalla crisi del ’29, aveva perso tutto a causa dei troppi debiti».

All’inizio avevate anche la stalla.

«Sì. Con i buoi per lavorare la terra e una vacca. Sveglia alle 4 del mattino. Anche mia moglie mi aiutava nei campi: senza di lei non sarei andato da nessuno parte. Il terzo figlio l’ha perso mentre stavamo seminando le patate».

Oggi quanti ettari di terra avete?

«Tre e mezzo. Coltivati a vigneto e frutteto».

Non siete mai stati tentati dall’idea di mollare tutto e andarvene?

«Mai. Qui abbiamo costruito la nostra vita e qui resteremo. Siamo gente abituata a lavorare e lo facciamo ancora oggi. E poi in nessun posto al mondo potremo mai avere un panorama come questo: la Val d’Adige, il Corno Bianco e il Corno Nero, il Latemar, il Catinaccio ».

Nel maso vivono anche i suoi cinque figli?

«Sì, sono tutti qua. Segno che hanno messo le radici in questo posto».

Finito il lavoro restava un po’ di tempo per la vita sociale?

«Di tempo ce n’era sempre poco, ma assieme ad altri mi ero dato da fare per costituire la sezione di Appiano delle Acli. È stata una bella esperienza».

GUARDA IL VIDEO

E COMMENTA

SU WWW.ALTOADIGE.IT













Altre notizie

il caso

«Giustizia per i legionari altoatesini dimenticati»

Interrogazione di Biancofiore al ministro Tajani: “La Francia dia i riconoscimenti dovuti alle famiglie dei caduti in Indocina”. La loro storia nei libri del giornalista dell’Alto Adige Luca Fregona (nella foto Alfredo De Carli)

Attualità