Uccise la compagna col fucile, ora va a processo 

Il delitto in aprile. Conclusa l’indagine sulla morte di Alessandra Cità nel Milanese Antonio Vena, 47 anni, viveva a Chiusa e lavorava a Bressanone: è accusato di omicidio volontario



Bressanone. La Procura di Milano ha chiuso l’indagine in vista della richiesta di processo a carico di Antonio Vena, 47enne operaio alla Duka di Bressanone ed ex guardia venatoria accusato di avere ucciso con un fucile a pompa nel cuore della notte, mentre lei dormiva, la sua compagna Alessandra Cità, sua coetanea e tranviera dell’Atm (Azienda trasporti milanesi), nell’aprile scorso ad Albignano, frazione di Truccazzano, nel Milanese.

L’uomo, che si era costituito presentandosi ai carabinieri in lacrime e visibilmente scosso, è accusato di omicidio volontario pluriaggravato. “Voleva lasciarmi, l’ho ammazzata” sarebbero state le parole dette all’epoca ai militari. Il fucile era detenuto legalmente dalla donna. Stando all’indagine del pm Giovanni Tarzia e del procuratore aggiunto Laura Pedio, Vena e Cità si conoscevano da tempo. Entrambi originari della provincia di Palermo, avevano iniziato una relazione circa nove anni prima e vivevano a distanza: lui a Chiusa e lei a Truccazzano, nell’hinterland del capoluogo lombardo. A causa dell’emergenza Covid, Vena era in aspettativa e da un paio di settimane viveva nell’appartamento insieme alla donna, che lo aveva ospitato in casa sua e che però aveva manifestato l’intenzione di interrompere la relazione.

In passato Vena era stato denunciato due volte per violenza dalla donna con cui all’epoca era sposato, fatti che si riferiscono al 2009 e al 2012 a Chiusa, dove i due vivevano.

Il giorno dopo la morte di Alessandra Cità, i dipendenti dell’Atm avevano osservato un minuto di silenzio in memoria della collega uccisa.

La Duka, come aveva confermato l’ad Hans Krapf all’indomani della morte di Alessandra Cità, aveva pregato Vena di fare una sorta di quarantena. “Andava avanti e indietro dalla zona rossa - avevano spiegato lo scorso aprile i vertici della Duka - e gli abbiamo chiesto di trascorrere in Lombardia una sorta di isolamento preventivo per non venire a contatto con altri operai. Noi abbiamo ripreso la produzione al 30-40% e non potevamo correre rischi. Antonio lavorava con noi da poco più di due anni, con un contratto a tempo indeterminato. Era un operaio specializzato”. Con lui aveva lavorato il figlio Santy, nato da una precedente relazione, ed entrambi erano considerati dipendenti modello. L’ultimo giorno di Antonio in azienda, a Bressanone, era stato il 21 febbraio. Poi era tornato a Chiusa e aveva chiesto e ottenuto un’aspettativa non retribuita.













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