La guerra

Il sopravvissuto: «Noi bambini sotto le bombe, la montagna ci proteggeva»

Renato Iacopelli, 91 anni, torna in uno dei bunker di via Fago, dove con la famiglia si rifugiava 80 anni fa: «Sono stati mesi orribili, avevamo paura e la gente moriva sepolta dalle macerie. La casa accanto alla nostra venne centrata in pieno»


Maddalena Ansaloni


Bolzano. «Una bomba è una cosa terribile, un boato che ti spacca la testa. Una cadde a cento metri da casa nostra, in via Fiume. Era il 1944 e avevo 11 anni. Ricordo l'odore, la polvere del cemento per aria: una casa di tre piani era crollata su se stessa. Non so quanti morti ci furono. Da quel momento in poi, con la mia famiglia, cominciammo ad andare nei rifugi tutte le mattine, ancora prima che suonasse l'allarme. Poi restavamo lì fino a sera, quando si spegnevano tutte le luci della città». Renato Iacopelli, 91 anni, con la mano accarezza la roccia del bunker H di via Fago. È uscito dalla casa di riposo Don Bosco, accompagnato dal responsabile dell'animazione Rocco Sartori, per visitare un luogo della storia che lui ha vissuto. Cammina piano, mentre sparisce nel buio delle gallerie. Quando è entrato l'ultima volta in un rifugio anti aereo aveva appena compiuto 12 anni. Era la primavera del 1945, e ancora non sapeva che la "guerra dal cielo" sarebbe finita di lì a poco. Insieme ad altri sfollati, lui e la sua famiglia si erano trasferiti a Rio di Pusteria: «Bolzano era diventata troppo pericolosa - racconta -. «Piazza Verdi, dove si faceva il mercato delle vacche, era un enorme buco. In via Trento non c'era una casa in piedi. Due bombe hanno distrutto il Duomo, dove c'era il cimitero. Da bambino immaginavo tutti gli scheletri che volavano per aria, con l'esplosione», racconta guardando in alto. Fuori, c'è una Bolzano diversa, ma il bunker aiuta a fare riaffiorare il ricordo di quelle giornate trascorse nascosti, al buio, protetti dalla montagna. «Con gli altri bambini giocavamo», sorride, «Se avevamo paura? Tanta, quando suonavano gli allarmi. I cani ululavano e la mia sorellina si aggrappava stretta stretta alla mamma. Il resto del tempo lo passavamo a cantare e a costruire gli aeroplanini di carta. Tutte le mattine, alle 9, la mamma preparava il fagotto con dentro le candele, i fiammiferi e un po' di cibo, quello che c'era... Il pane nero. Poi andavano in uno dei rifugi, prima suonava il pre allarme, ad intermittenza, e poi l'allarme vero: un suono lungo. Segno che in pochi minuti sarebbero arrivati i cacciabombardieri americani».

La fuga dei prigionieri

In via Fago c'erano cinque bunker: alcuni per i civili e altri ad uso esclusivo dei militari tedeschi. I rifugi del tribunale e del Virgolo venivano utilizzati all'inizio da gran parte della popolazione di Gries e del centro, ma essendo vicini agli obiettivi dei bombardamenti, la stazione e il ponte ferroviario, dopo poco tempo iniziarono ad esser considerati meno sicuri degli altri. «Siamo andati qualche volta a ripararci sotto al tribunale», racconta Iacopelli, «Me lo ricordo perché lì i nazisti ci portavano i prigionieri del lager di Bolzano, quasi tutti soldati feriti che venivano curati all'ospedale militare. Le guardie li tenevano d'occhio perché indossavano una divisa con una M cucita», spiega toccandosi il piumino, «Un giorno un detenuto si avvicinò a mia madre e le chiese se avesse dei vestiti vecchi di suo marito. Lei non disse niente. Il giorno dopo preparò un secondo fagotto e, arrivati nel bunker, lo lasciò sopra una panca. Il soldato del giorno prima la vide, lo prese, e tenendolo nascosto, disse alla guardia che andava in bagno. Non l'ho più visto, credo sia riuscito a scappare. La stessa scena l'ho vista ripetersi nel rifugio della galleria del Virgolo. Lì i prigionieri lavoravano sotto alla galleria, con questo metodo saranno fuggiti a decine, si mimetizzavano con i civili».

Il bunker H

Mentre Renato racconta, il presidente della cooperativa Talia Gino Bombonato, che ha in gestione il bunker, lo accompagna nella stanza dove conservano gli oggetti trovati. Ci sono diverse lire, alcuni porta pistola in cuoio, e dei contenitori della crema antivesciche che veniva data in dotazione ai soldati tedeschi. L'ultima scoperta, la più preziosa dal punto di vista storico, è un timbro perfettamente conservato con la scritta "Alpenvorland": il nome della suddivisione territoriale in cui, nel 1943, vennero accorpate le provincie di Bolzano, Trento e Belluno. In quello stesso anno è stato scavato il bunker H di via Fago, ad uso esclusivo dei militari tedeschi, a cui i civili non avevano accesso. «I tedeschi erano molto organizzati», spiega Bombonato, «Avevano l'elettricità, e lo sappiamo perché ci sono ancora i paletti in cui passavano i cavi. Avevano pavimentato il terreno. Qui venivano conservate le munizioni e addirittura dei macchinari». Molto diverso dai rifugi che ha vissuto Iacopelli: «Da noi c'erano le panche e si faceva luce solo con le candele», racconta, «in val Pusteria l'entrata del bunker era sul lato della montagna. Anche lì volavano tanti cacciabombardieri: gli americani miravano alla centrale elettrica che alimentava la ferrovia. Non riuscirono mai a colpirla, le bombe cadevano dall'altra parte, verso Rodengo. Lì bruciò l'intero bosco».

Il ritorno alla normalità

Che la guerra fosse finita Renato lo seppe da un vicino di casa che ascoltava radio Londra di nascosto. Andarono sulla strada provinciale e videro le Jeep degli americani. Fu una di queste, alcuni giorni dopo, a riportali a Bolzano. Dove tornarono a vivere in via Fiume. Iacopelli seguì la strada di suo padre, e per 42 anni lavorò alle poste. Adesso è uno degli anziani più attivi della casa di riposo Don Bosco, dove trascorre il tempo costruendo orologi, facendo lunghe passeggiate e partecipando ai convegni di letteratura. «Quindi uscimmo a riveder le... Le nubi», sorride mentre varca l'ingresso del bunker. Si gira verso Bombonato e lo ringrazia della preziosa opportunità. Forse non si rende conto del regalo che ha fatto lui con le sue parole. «È bello che teniate vivi questi ricordi, perché la guerra è sempre attuale», dice Iacopelli tenendo stretto in mano un volantino della cooperativa Talia. «Tornerò», sorride.













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