Tutti in coda, bastano 45 minuti 

Merano. Quando parcheggio la bici addosso a un muro delle Galilei intorno a me non c’è quasi nessuno, giusto una coppia che si avvia verso l’uscita di via Monte Tessa, da dove sono entrata. Bene, mi...


Sara Martinello


Merano. Quando parcheggio la bici addosso a un muro delle Galilei intorno a me non c’è quasi nessuno, giusto una coppia che si avvia verso l’uscita di via Monte Tessa, da dove sono entrata. Bene, mi dico, ho fatto bene ad arrivare presto. Ma come giro l’angolo della scuola mi ritrovo di fronte a una fila di persone. Sempre di più, sempre più lunga, a mano a mano che attraverso il cortile e sbuco in via Toti. Una coppia in coda mi saluta. Sono i miei vicini di casa: puntuali, un senso civico d’altri tempi, ero sicura che li avrei trovati qui. E in questo 2020 di solitudine e di uscite fugaci per andare al lavoro o a fare la spesa sono proprio contenta di vederli fuori di casa, vuol dire che stanno bene.

«Sto cercando l’inizio della coda», mi scuso frettolosa mentre li supero e raggiungo la pensilina dell’autobus, venti metri più in là. Sono le 8.15 e mando un primo messaggio alla redazione. Dietro di me si mette in fila una donna. C’è un senso di coesione, in questa coda che almeno per ora mi pare adeguatamente espansa. Più avanti vedo pure un uomo che di fronte a sé tiene liberi quattro metri, con qualcuno dietro di lui a protestare a occhiatacce. Ma mica se ti avvicini a chi ti precede fai il test prima. Il galateo dello stare in fila oggi si scontra con l’urgenza di sottoporsi a un test antigenico, per senso civico, per conoscere il proprio stato di salute, perché questo coronavirus smetta di agitare la sua falce sanguinosa sulle famiglie, su chi è sola o solo, sugli ultimi e sulle ultime della società. Qui, dove di solito ci presentiamo con l’abito buono per onorare la conquista democratica, oggi siamo in fila al freddo con due paia di calze ad aspettare di sapere se siamo inconsapevoli vettori di un virus letale.

Intanto faccio amicizia con la mia compagna di fila. «Be’, è un sollievo vedere tanta gente, con tutti i negazionisti che ci sono in giro». «Magari significa che non sono poi così tanti», mi risponde la signora T., arrivata presto pure lei per poter cominciare a lavorare il prima possibile. Lo farà da casa, è già in smart working. Ha orari più severi di quelli di una giornalista, così mi offro di lasciarla passare avanti a me. La signora T. ringrazia ma resta al suo posto: una volta entrate nella palestra la cosa sarà piuttosto svelta. Pian piano la fila avanza, entriamo nel cortile della scuola, saluto da lontano i miei vicini di casa. Mi piace pensare che siamo tutte e tutti qui per un bene comune. Con la signora T. intanto dalle più facili considerazioni meteorologiche e lavorative passiamo a quelle che da mesi ingombrano il cuore. Quando le dico che certe volte a leggere le storie delle vittime del Covid-19 mi commuovo lei mi risponde che è proprio così, che quelle storie rigano l’animo di dolore. «Ma non a tutti, c’è ancora chi dimostra indifferenza», aggiunge. Conveniamo che servirebbe meno individualismo. Chissà quanti altri, in quante altre file sparse per la provincia, stanno facendo amicizia coi vicini e magari arrivano alle stesse conclusioni.

Sono le 8.55, ormai siamo a pochi metri dalla porta. Igienizziamo le mani, tiriamo fuori modulo e documenti. «Elf», mi dice l’operatore all’entrata. Subito investita della responsabilità di evitare qualsiasi intralcio allo svolgimento, dimentico di salutare la signora T. e mi avvio verso l’undicesima postazione. Modulo, documenti, codici adesivi, in venti secondi la parte burocratica è fatta. Piombo davanti all’operatrice dell’Azienda sanitaria con lo zelo di una bambina. Lei prepara tutto l’occorrente e mi infila il tampone nel naso. Un po’ di fastidio lo si sente, è vero, ma durerà forse cinque secondi. Appena finito mi guardo intorno cercando la signora T. per salutarla, ma non la vedo più. Uscendo si passa per un’entrata della scuola, c’è un’infermiera (o una medica, con le tute è difficile capirlo) che ci ringrazia di aver partecipato: un gesto gentile, non dovuto, non me lo aspettavo. Chissà se le è stato assegnato il compito di salutarci o se invece l’ha fatto perché si trovava lì e le andava di farlo. In ogni caso, un buon segno.

Riprendo la bici e controllo l’orologio. Le 9. In quarantacinque minuti ho fatto tutto, con quella fila spaventosa solo quando all’inizio, per un attimo, ho pensato di lasciar perdere e di tornare più tardi. Durante la giornata – è il mestiere – inevitabile lo sguardo ai gruppi Facebook per misurare il morale dei meranesi. Noto segnalazioni di lunghe code, di assembramenti. Sicuramente gli agenti della polizia locale e i vigili del fuoco saranno intervenuti per sparpagliare la gente, penso, confidando anche nel buonsenso dei partecipanti. Perché la prossimità fisica intimidisce pure noi millennial. Le 9.30, le 10, le 15, per ore guardo il telefono compulsivamente. «Entro un’ora...», quella promessa riecheggia in testa. Ci avevo creduto? Sì. Me la prendo? Sono esseri umani anche tutte le persone che ci stanno aiutando a contenere il contagio. Infatti va proprio così, le ore passano e l’e-mail non arriva. Verso le 17 l’Azienda sanitaria fa sapere che «si stanno verificando ritardi nella trasmissione dei risultati per via di un sovraccarico dei sistemi informatici. Si sta lavorando intensamente. I risultati saranno trasmessi entro un giorno».

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