«Solo una foto condivisa è una buona fotografia» 

Il reporter bolzanino primo ospite del “Mese della fotografia” al Centro Trevi «Fotografare è una responsabilità sociale, l’obiettivo può essere invasivo»


di Luca Mich


BOLZANO. Periferie della memoria, periferie della coscienza, periferie dei diritti umani, periferie dell’esistenza…

Di queste periferie dell’umanità, a volte sconosciute, spesso volutamente ignorate, sempre tormentate, ha parlato Andrea Rizza Goldstein giovedì scorso nel consueto ciclo di conferenze che nel mese di novembre, nell’ambito del “Mese della fotografia”, il Circolo Tina Modotti di Bolzano dedica al reportage.

Il tema della periferia, proposto quest’anno come filo conduttore delle conferenze e della mostra di Nino de Pietro “Schegge di periferie: il neorealismo a Milano” che resterà aperta per tutto il mese di novembre al Centro Trevi, è un tema che ha sempre affascinato i fotografi che hanno fatto dell’indagine sociale la loro attività di ricerca.

La periferia come concetto di zona limite, di bordo, di soglia tra qualcosa che è evidentemente nel centro, e che viene normalmente associato con l’idea di nobile, pregiato e meritevole, con ciò che gli è distante ma allo stesso tempo strettamente legato e che l’immaginario collettivo associa a qualcosa di immeritevole e scadente, è un concetto che ha le sue origini alla fine dell’ottocento quando il capitalismo industriale richiama dalle campagne immense masse di lavoratori che daranno origine alla così detta classe operaia, che in breve tempo trasformerà le campagne ai bordi delle città in “periferie urbane”. È l’inizio di una contrapposizione che caratterizzerà, con le sue tensioni sociali, tutto il novecento.

Il concetto di periferia, come zona di risulta ove finisce tutto ciò che è indesiderato ma necessario per la realizzazione di altre necessità, come prodotto di scarto, è stato nel tempo applicato anche alle discipline sociologiche, alla ricerca storica, all’economia ed è curioso che lo stesso concetto sia anche alla base dei principi ottici che regolano il funzionamento degli obiettivi utilizzati in fotografia.

Ogni fotografo infatti sa che allontanandosi dall’asse di ripresa, dunque avvicinandosi al bordo esterno della lente, alla sua periferia, inevitabilmente la qualità dell’immagine decade, perde dettaglio, perde qualità. E in questo senso la vignettatura rappresenta il cono d’ombra che spesso nasconde le contraddizioni e le ingiustizie che dominano le periferie.

Su queste tematiche Andrea Rizza Goldstein, ha proiettato tre suoi reportage. Partendo dallo slum di Huruma, una delle baraccopoli che circondano Nairobi dove vivono ammassati centinaia di migliaia di esseri umani in condizioni di vita ed igieniche inimmaginabili, proposta come periferia sociale, passando dall’ex-Iugoslavia, periferia della memoria, dove ancora oggi i sopravvissuti lottano per la difesa dei propri diritti e per la ricostruzione delle responsabilità storiche di quei tragici avvenimenti, ai confini dell’Europa come periferie dei diritti umani, lungo la rotta balcanica dei migranti.

Andrea Rizza Goldstein, Bolzanino e socio del circolo fotografico Tina Modotti dove ha approfondito le tematiche del reportage sociale e la stampa fine art in camera oscura, dopo gli studi di fotografia al Dams di Bologna, dal 2010 al 2017 ha lavorato per la fondazione Alexander Langer come coordinatore del progetto “Adopt Srebrenica” e alla costituzione di un centro di recupero, archiviazione e divulgazione del materiale fotografico prebellico. Dal 2017 è invece impegnato con Arci Bolzano nel coordinamento dei progetti di “Cittadinanza globale” rivolti ai giovani.

Abbiamo avuto modo di scambiare due parole su questi temi con l’autore.

Nella fotografia di reportage sociale sono inevitabilmente coinvolti tre soggetti: il fotografo che scatta la fotografia, il soggetto che viene fotografato e lo spettatore che vedrà la fotografia. Nel contesto di questa dinamica relazionale, quando secondo lei una fotografia è una “buona fotografia”?

«Sono dell’ idea che il fotografo abbia una grande responsabilità quando si avvicina con l’intento di descrivere e documentare simili realtà. L’obiettivo può diventare estremamente invasivo e irrispettoso delle vite e delle vicende, a volte tragiche, delle persone che fotografiamo. Io cerco sempre di instaurare un rapporto con le persone che ritraggo e mi piace concordare assieme come verrà utilizzata l’immagine e con quali fini. Spesso non ho utilizzato fotografie che ritenevo molto valide semplicemente perché invece non piacevano alla persona fotografata.Solo quando una fotografia è condivisa è una buona fotografia».

Giuseppe Parini, riferendosi alla poesia, disse che aveva un’utilità morale, potendogli attribuire un valore etico e di impegno sociale. Lo stesso valore si può attribuire in epoca modera alla fotografia. In questi termini, quale contributo può dare la fotografia verso questi temi così spesso ignorati dalle società del benessere?

«Ultimamente sono sempre più scettico che la fotografia possa riuscire a dare un contributo vero, verso la soluzione di problemi di una tale complessità. Mi sembra a volte che addirittura la fotografia ottenga il risultato contrario a quello voluto… Fotografiamo le masse di migranti alle frontiere in cerca di asilo? E la cassa di risonanza della fotografia trasforma questa povera gente priva di tutto come l’invasore alle porte…

Se è vero che una fotografia vale più di mille parole, chi non vuol vedere non si lascerà convincere da diecimila fotografie…».

Giovedì prossimo 22 novembre alle ore 18, sempre al Centro Trevi, sarà la volta di Luca Greco con il reportage “Le strade dell’Apartheid”.

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