L'INTERVISTA

Da Caldaro alla Nhl, il viaggio nella storia di Thomas Di Pauli 

Il 25enne è stato il primo italiano ad esordire nella lega più importante del mondo. «Devo ringraziare la mia famiglia per i tanti sacrifici fatti e ai giovani dico di non arrendersi mai»


Paolo Gaiardelli


Bolzano. È il 2009, quando, in occasione della cerimonia del Naismith Memorial Basketball Hall of Fame, davanti ad una platea sghignazzante all’ipotesi di vederlo ancora in campo a 50 anni, Micheal Jordan pronuncia una delle sue frasi più celebri, capace di ispirare sportivi e non: «Mai dire mai, perché i limiti, come le paure, sono spesso soltanto un’illusione».

In quegli stessi anni, guarda caso proprio a Chicago, dove il cestista più forte di tutti i tempi è diventato leggenda, Thomas Di Pauli, appena adolescente, iniziava la sua nuova vita negli Stati Uniti, alla caccia di un sogno, quello di poter un giorno giocare vicino ai più grandi campioni di hockey su ghiaccio. Allora poteva avere il sapore amaro di un’utopia, visto che il ragazzo veniva dall’Italia, dove la disciplina non ha certo lo sviluppo ed il seguito del Nord America. Il giovane sbarcato da Caldaro si trovava infatti a dover scalare una montagna impervia per colmare il gap tecnico e fisico che pagava nei confronti dei suoi coetanei d’oltreoceano. In molti, nella sua stessa situazione, avrebbero gettato presto la spugna. Ma non lui. «Ho sempre cercato di ripagare tutti gli sforzi fatti dalla mia famiglia - ci racconta Di Pauli -. Il cambio radicale di vita, mio papà che faceva avanti e indietro dall’Italia per lavoro, non è stato facile, né per mia mamma, né per mio fratello, né per mia sorella. Ogni giorno provo a dare il massimo per renderli orgogliosi».

E Thomas, oggi 25enne, quel “limite” di cui parlava Jordan lo ha oltrepassato per davvero, ha abbattuto il muro; il ragazzino di paese è cresciuto in fretta, è diventato uomo, riuscendo nell’impresa di risultare il primo atleta di formazione italiana a giocare in Nhl. Non con una casacca qualunque, perché se le cose si devono fare, bisogna farle bene. Nientemeno che tra le fila dei Pittsburgh Penguins, franchigia che ha alzato per ben cinque volte la Stanley Cup e che vanta a roster delle stelle straordinarie come Sidney Crosby e Evgeni Malkin. Il record è diventato tale il 4 gennaio, sul ghiaccio del Ben Centre di Montreal, in casa dei Canadiens: 4’16” in pista e vittoria esterna per 3-2. Poi, il giorno successivo, ancora spazio nella sfortunata trasferta in Florida contro i Panthers (sconfitta per 4-1, ndr), con Di Pauli impiegato maggiormente, per quasi 8 minuti complessivi.

A distanza di qualche giorno dal debutto, si rende conto di quello che è riuscito a fare?

«È stato qualcosa di incredibile, un traguardo che volevo ottenere e che mi rende felice. Mi ricordo che quando ero in Italia rimasi colpito da un campione arrivato a Cortina dalla Nhl, Matt Cullen. Quando lo vidi in pista, iniziai a fantasticare e a sperare di raggiungere un giorno i suoi livelli. Vederlo ad inizio gennaio nello spogliatoio dei Penguins (Cullen dopo esserne stato giocatore, fa ora parte del coaching staff di Pittsburgh, ndr) è stata come una folgorazione, mi sono detto: “Ehi ragazzo, forse ce l’hai fatta davvero!”».

Un entusiasmo comprensibile, visto che mai nessun atleta cresciuto in Italia è riuscito ad arrivare tanto in alto...

«Era impensabile, forse, immaginare che un ragazzo cresciuto a Caldaro, prima, e Bolzano, poi, potesse ambire ad un certo tipo di hockey. Di certo non è stato facile, ho dovuto lavorare molto, correggere le impostazioni che avevo ricevuto da piccolo, rincorrere gli altri, abituarmi a ritmi ed intensità che non credevo si riuscissero a tenere, ma ce l’ho fatta. Spero di poter essere da stimolo e da esempio per i tanti ragazzi che in Alto Adige, ma anche nelle altre regioni, si avvicinano a questo sport e che hanno un sogno nel cassetto. A loro dico di continuare a divertirsi sui pattini, prima di tutto, di impegnarsi, e di non arrendersi mai. Chissà che un giorno qualcun’altro non riesca a ripercorrere il mio cammino. Per farlo ci vuole tanto sacrificio, ma le cose belle non arrivano mai senza la fatica».

È dura anche gestire la pressione di dover passare il disco a dei mostri sacri come Malkin (non citiamo Crosby solo perché infortunato ad inizio gennaio, ndr)?

«Stare accanto a sportivi così è pura gioia. Lui, ad esempio, è talmente forte che fa sembrare tutto naturale e, alla fine, rende più facile anche il tuo lavoro sul ghiaccio. Per questo non mi sono agitato, ho cercato di fare il mio e di dare un contributo».

Crede di esserci riuscito?

«Penso di aver fatto un buon lavoro in forcheck, ho protetto altrettanto bene il disco, e, nel complesso, sfruttato la mia velocità. Fortunatamente questa è la caratteristica che mi contraddistingue ed è importante che sia così in un hockey che sempre maggiormente ti chiede di andare al massimo».

Ha ricevuto qualche consiglio particolare da parte dei compagni di squadra o dallo staff tecnico?

«I compagni mi hanno detto semplicemente di godermi il momento e di giocare il mio hockey senza snaturarmi. Dal punto di vista tecnico mi è stato chiesto di prestare particolare attenzione al posizionamento durante la fase difensiva».

Ed ha seguito queste indicazioni?

«Certo, di sicuro mi sono divertito. Da parte mia sento di aver dato il massimo, di aver risposto bene e ripagato la fiducia. Mi auguro che questo serva per il futuro».

A tal proposito, la stagione come andrà avanti?

«Io proseguo la mia annata in American Hockey League con i Wilkes-Barre/Scranton, che è la squadra satellite dei Penguins. L’obiettivo è andare bene lì, continuare a lavorare come ho sempre fatto da quando gioco a hockey, ovviamente con la speranza che arrivi un’altra chiamata dall’Nhl. Voglio farmi trovare pronto».

Qui in Italia fanno tutti il tifo per lei, perché ci siano altre occasioni. Quindi forza e coraggio...

«Lo so benissimo. Sono rimasto senza parole per tutti i messaggi ricevuti ad inizio mese dopo i due match giocati a Montreal e in Florida. Ho sentito tanto affetto, sia dagli amici che ancora ho a Caldaro e dintorni, che da semplici affezionati, e ne sono contento. Mi fa piacere, perché vuol dire che l’hockey sta crescendo molto in Italia. Mi auguro di poter regalare altre soddisfazioni a tutti».

 

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