Fiorenzo Magni terzo incomodo nella epica sfida  tra Coppi e Bartali

Oggi, 7 dicembre, cento anni fa, a Vaiano, provincia di Prato, Toscana, nasceva Fiorenzo Magni. Un gigante del ciclismo italiano, suo malgrado passato alla storia come “il Terzo Uomo”, dopo Fausto...



Oggi, 7 dicembre, cento anni fa, a Vaiano, provincia di Prato, Toscana, nasceva Fiorenzo Magni. Un gigante del ciclismo italiano, suo malgrado passato alla storia come “il Terzo Uomo”, dopo Fausto Coppi e Gino Bartali. Una sua immagine è diventata simbolo di quel ciclismo eroico, in bianco e nero, che ancora, per fortuna, dispensa emozioni. E un altro pensiero ci fa compagnia. Quella foto - Magni che corre stringendo in bocca una camera d’aria - è del Giro d’Italia del 1956 che il ciclista toscano chiuderà al secondo posto. E’ il giro che vincerà Gaul, è il Giro della tappa leggendaria che si conclude sul Bondone. E’ il Giro nel quale un giovanissimo Aldo Moser conquista il quinto posto: il suo miglior piazzamento di sempre alla corsa rosa. E così ricordare Magni a cento anni dalla nascita è anche un nuovo, doveroso ricordo del “Vecio” del ciclismo italiano, che ci ha lasciato una manciata di giorni fa ma che sempre abiterà i cuori di chi ama lo sport della bicicletta. La grandezza dell’Aldo di Palù di Giovo sta anche nei campioni con cui si è misurato: Coppi, Bartali, Magni appunto, Gaul, Anquetil, Merckx, Gimondi…

Già. In quelle storica edizione del Giro d’Italia del 1956 Magni corse stringendo in bocca una camera d’aria. Si era fratturato una clavicola durante la corsa. Teneva tra i denti un'estremità del tubolare, mentre l'altra estremità era fissata al manubrio. Così poteva diminuire lo sforzo richiesto alla spalla sinistra infortunata e sfogare il dolore affondando i denti nella gomma. Magni la raccontò così. «Sono caduto nella discesa di Volterra e mi sono fratturato la clavicola. Non puoi partire, mi dice il medico. Io lo lascio parlare e faccio di testa mia: metto la gommapiuma sul manubrio e corro la crono. Poi supero gli Appennini. Ma provando la cronoscalata di San Luca mi accorgo di non riuscire nemmeno a stringere il manubrio dal dolore; allora il mio meccanico, il grande Faliero Masi, decide di tagliare una camera d’aria, me la lega al manubrio e io la tengo con i denti, per non forzare le braccia. Il giorno dopo, nella Bologna-Rapallo cado di nuovo e mi rompo anche l’omero. Svengo dal dolore. Sono sulla lettiga quando riprendo coscienza e ordino a chi guida l’ambulanza di fermarsi. Mi butto giù, inseguo il gruppo, lo riprendo. Pochi giorni dopo arrivo sul Bondone sotto una tormenta di neve. Per questo gesto Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello, che seguivano il Giro, mi ribattezzarono Fiorenzo il Magnifico».

Ma essere il Magnifico può non bastare se il sentimento popolare - che nel ciclismo è stato tutto, per decenni - ti ha inchiodato all’essere il Terzo Uomo. Nello sport capita. Connors tra Borg e McEnroe, Djokovic tra Federer e Nadal, Di Stéfano tra Maradona e Pelé, Foreman tra Ali e Frazier. Magni tra Coppi e Bartali.

Di lui - che se ne è andato il 19 ottobre di otto anni fa - Gianni Mura scrisse: «Appena vedeva una crepa, Magni s'infilava, ma sarebbe riduttivo dipingerlo come un profittatore. È stato un campione, inferiore a Bartali e Coppi in salita, ma imbattibile in discesa, leggendario. Dovevano arrivare Francesco Moser, Freuler e Savoldelli perché si vedesse qualcuno come Magni, e si tenga conto che le discese quasi sempre erano sterrate. Solo un campione poteva vincere per tre anni di fila il Fiandre, la prima volta correndo da isolato, l'ultima sotto la grandine».

A proposito di soprannomi. Da giovane era detto anche Cipressino, alto e sottile qual era. Lui preferiva sentirsi chiamare il Leone delle Fiandre, per via delle tre vittorie consecutive sul pavé del Belgio tra il 1949 e il 1951. A risentire il suo racconto, c’è da restare a bocca aperta. «Il Fiandre era considerato una corsa gloriosa e avventurosa. E a me l’avventura è sempre piaciuta. Correvo per la Wilier Triestina. Quando dissi che avrei voluto fare il Fiandre, mi risposero va bene, ma arrangiati. Mi arrangiai. Alla Stazione Centrale di Milano io e Tino Ausenda, il mio gregario, sembravamo due pellegrini. Treno, noi in cuccetta, seconda classe, bici al seguito, nel bagagliaio. Nella piazza della stazione di Gand ci guardammo intorno, e andammo in un alberghetto - trattoria, dove si spendeva poco. Avevamo i soldi contati. Quell’alberghetto - trattoria era modesto, avrà avuto una stella, forse mezza, forse neanche. Ma il padrone era Gerard Debaets, un corridore, stradista e pistard, aveva vinto due Giri delle Fiandre e da seigiornista aveva corso anche in America. Prendemmo due camere. Per risparmiare qualche lira avremmo anche potuto dividerne una, ma stare da solo in una camera è sempre stato un piccolo lusso cui non ho mai rinunciato. Tranne che, è chiaro, con mia moglie. Debaets sembrò quasi onorato di avere due corridori italiani».

Quando vinse l’anno dopo, i giornali italiani misero la notizia in un trafiletto in fondo alle pagine, sotto la sconfitta della Nazionale di calcio a Vienna contro l’Austria e soprattutto: sotto la vittoria di Coppi su Bartali al Giro di Reggio Calabria.

Fa niente. Disse: «Ai piedi del Grammont ero solo. In cima avevo più di cinque minuti di vantaggio su Schotte e il francese Louis Caput. Poi gestii la corsa. Primo io, Schotte secondo a più di due minuti, Caput terzo a dieci. Ogni villaggio fissava traguardi a premi per i corridori. In palio scarpe, magliette, tappeti. C’erano un sacco di italiani, emigrati in Belgio in cerca di lavoro. Operai, manovali, minatori. Quel giorno vinsi anche per loro».

Già. Il Terzo Uomo non solo vinse i suoi tre Fiandre ma si impose anche in tre Giri d’Italia (1948, 1951, 1955), in 18 tappe tra Giro Tour e Vuelta e a corrergli contro non erano solo Bartali e Coppi, ma anche Bobet, Robic, Koblet, Kubler, Van Steenbergen, Van Looy, De Bruyne e Gaul. Fu primatista mondiale di velocità sui 50 e sui 100 km. Il suo terzo Fiandre, quello del 1951, venne raccontato da Mario Ferretti, il radiocronista che due anni prima aveva aperto il racconto della Cuneo-Pinerolo con queste parole: «Un uomo solo al comando della corsa, la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome è Fausto Coppi». Del Terzo Uomo scrisse: «Andiamo verso il muro di Grammont. Mancano meno di settanta chilometri all'arrivo. Magni tenta la strepitosa affermazione sotto un tempo di tregenda. Vento, freddo, grandine, e lui, solo. Passo vicino a Fiorenzo: mi guarda. Gli grido non so più che cosa. Abbozza un sorriso e continua la sua lotta meravigliosa. Più avanti gli dico che dietro di lui è Petrucci. Sorride ancora e risponde: Abbiamo davvero un campione. La grandine rimbalza a terra sul selciato con rumore secco. Fa un freddo tremendo».

Ma non tanto freddo, grandine, salite e discese, Coppi e Bartali, furono i suoi avversari. Il ragazzo che aveva avuto prestissimo una famiglia a cui badare - il papà era morto in un incidente stradale nel 1937 - dovette fare i conti per tutta la vita con il suo passato fascista. Dopo l'8 settembre del 1943 aveva aderito alla Repubblica sociale di Salò, combattendo con la Guardia nazionale repubblicana. Venne processato per la strage di Valibona. Tre gennaio 1944, in uno scontro tra partigiani e repubblichini muore Lanciotto Ballerini, figura chiave della Resistenza in Toscana. Magni era là, non fu lui a sparare. Dinanzi alla Corte d’appello di Firenze usufruì nel 1947 dell'amnistia Togliatti. Martini, il partigiano Alfredo Martini, andò a testimoniare per lui. Ma in strada, durante le corse, Magni si portò sempre dietro la sua storia. Walter Bernardi, professore universitario di filosofia, ha ricostruito l’intera parabola in un bel libro - “Il caso Fiorenzo Magni” (Ediciclo) - ricco di documenti e testimonianze. Sulle strade del Giro apparivano striscioni che dicevano: «Chi vota DC vota Bartali, chi vota PCI vota Coppi, chi vota MSI vota Magni». Fu spesso fischiato, anche impietosamente. Specie nella sua Toscana dove si sentiva dire che “tre maglie rosa non bastano a coprire una camicia nera”».

Gino Cervi, come pochi attento cronista in bicicletta, ha scritto: «Le vittorie arrembanti, la tenacia mai doma, ma anche i chiaroscuri degli anni di guerra e del processo fanno di Fiorenzo Magni un simbolo ancora attuale di un paese nato sulle ceneri di una guerra civile e per questo ancora oggi incapace, o impossibilitato, di rielaborare una memoria condivisa e pacificatoria».















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