Hansjörg Brunner amarcord tricolore

Prima i motori, ora il vino: «Ma l’hockey è il vero amore»


di Thomas Laconi


MERANO. Qualche settimana fa Hansjörg Brunner ha spento settanta candeline. Un grande traguardo festeggiato con gli amici di sempre, lontano dai riflettori. Un giorno come gli altri, conoscendolo, perché nella sua vita il personaggio che più di altri ha scritto la storia dello sport di Merano non è mai rimasto fermo un solo momento. Da giovane ha scelto i motori, oggi si gode la vita curando i suoi vigneti, dai quali, ogni anno, produce nove diverse varietà di vino. Quando di parla di hockey e del suo Merano, però, a Brunner si illuminano ancora gli occhi, come se quel grande ciclo fosse terminato ieri. «È stato il mio grande amore - sorride - ho dato tutto per il Merano, ho vinto due scudetti, ho portato la passione al palaghiaccio di via Mainardo: è stata una lunga parentesi felice, peccato che sia finita come non avrei voluto che finisse».

Al Sittnerhof, il suo paradiso immerso nel verde, Brunner racconta 40 anni di hockey, vissuti sempre in prima fila. Alcuni anni fa ha combattuto un brutto male, ma non hai smesso di lottare, come sempre ha fatto. «Non bisogna mai arrendersi, nella vita, come nello sport, i problemi bisogna affrontarli e sconfiggerli con grinta. Sono un combattente nato».

Hansjörg Brunner, l'hockey per lei è ancora l'amore più grande o un semplice capitolo del suo passato?

«Se ami l'hockey davvero, lo ami per sempre. Ricordo ogni tappa di questo lungo viaggio. Eppure ho cominciato con i motori, poi un giorno è arrivata l'occasione di aiutare la squadra della mia città. Erano gli anni 70, Karl Schmid, colui che portò l'amaro Jägermeister in Alto Adige, era il proprietario della squadra e mi chiese se ero pronto a subentrare come presidente. Mi disse che mi stava preparando il trampolino, poi solo dopo capii (ride) che si era dimenticato di mettere l'acqua nella vasca. Partimmo dalla B, avevo degli ottimi collaboratori, salimmo in A, passando dal primo impianto di Maia Bassa nello storico palaghiaccio di Via Mainardo».

Eppure il suo primo amore furono le corse in auto.

«Già, ho vinto tanto, lo facevo per passione. Dal 1963 in poi ho corso in Italia e all'estero, erano tempi goliardici, era altresì impegnativo, guidavo l'Alfa GTA 1300, partivo giovedì all'alba per il Friuli, a Sacile, per un ultimo controllo dal mio meccanico di fiducia, poi mi spostavo direttamente nei circuiti per le gare, facendo, di fatto, tutta una tirata. Mi sono divertito molto, nonostante il grande impegno di quel periodo».

Torniamo all'hockey. Quando passa in Via Mainardo cosa prova ancora oggi?

«Ero innamorato di quello stadio, la passione per l'hockey esplose in quel piccolo impianto all'aperto. Contro il Bolzano si radunavano anche 3000 persone, nessuno voleva mancare. Quell'impianto ha sempre unito tedeschi ed italiani anche in quel periodo, il Merano era una sola, grande passione. Ricordo che prima delle finali alla mattina presto mi recavo fino in Val Venosta per trovare nuovi sponsor e a tempo di record riuscivamo ad appendere i pannelli sulle balaustre».

Il Merano scrive la storia nel 1986, arriva il primo scudetto. Chi fu l'artefice di quello straordinario collettivo?

«Sicuramente Brian Lefley, il più grande allenatore con cui ho lavorato. Un grande professionista, una persona squisita, insomma l'allenatore ideale. Giocammo contro l'Asiago, dopo avere eliminato il Bolzano. In campo Mark Morrison era una spanna sopra gli altri, ad Asiago giocò tutta la partita con la febbre, eppure era inarrestabile. Lo sponsor era la Lancia. Andai fino a Torino per chiudere l'accordo con l'azienda torinese e fu una gran bella soddisfazione per tutti, noi e loro».

Chi fu il giocatore più complicato da gestire?

«John Vecchiarelli. Lui era un bravo ragazzo, ma aveva una fidanzata diciamo "problematica". Veniva sempre da me in ufficio, fin quando un giorno le dissi che per il bene di John e del Merano doveva darsi una calmata. E allora le cose andarono decisamente meglio».

Da Via Mainardo alla Meranarena. Fu un passaggio traumatico per lei?

«Si, ero legatissimo a quello stadio, era pronto un progetto per costruire su quel terreno lo stadio nuovo, con parcheggi, negozi e altre strutture, ma non se ne fece nulla. Peccato davvero, ero pronto ad investire personalmente pur di restare lì. Quella era la nostra casa». Il secondo scudetto arriva dopo la notte del Palaonda. Come ha vissuto quel secondo tricolore?

«Era un titolo diverso dal primo, ogni scudetto ha una sua storia. Eravamo una grande squadra, ricordo tanti protagonisti. Da Volkov e Gogolev, loro furono due delle stelle di quel Merano. Gogolev era il meno appariscente dei russi, ma forse era davvero il migliore. In finale giocò con un braccio tumefatto. Al ritorno Via Palade era piena di tifosi ad aspettarci. Un'altra notte magica per Merano».

Il Bolzano e il derby. Quanto era grande la rivalità a quei tempi?

«Contro i biancorossi era il derby. Eppure, se sul ghiaccio erano scintille, fuori ebbi sempre un buon rapporto con i dirigenti. Dieter Knoll è sempre stato un grande personaggio, leale, e solo pochi possono capire davvero cosa sia riuscito a fare per l'hockey. Nonostante le critiche e i momenti difficili, è sempre andato avanti. Lo ammiro e con la Ebel ha fatto davvero un capolavoro».

Il suo rapporto con gli arbitri?

"Durante le partite ero sempre dietro al plexiglass con Walter Andriolo ed ero solito aprire le porte per farmi sentire. Sono una persona sanguigna, ma non lo facevo con cattiveria (sorride). A distanza di anni, pensi che certi fischietti rimpiangono ancora quegli episodi. Volevo farmi sentire e lo facevo a modo mio».

Le manca l'hockey?

«Ho chiuso un ciclo sette anni fa, la politica non mi ha aiutato in quel periodo e questo mi fa male, pensando a quello che ho dato al Merano. Sono subentrate altre persone al mio posto, alla fine se vuoi ottenere risultati devi credere in un progetto e metterci la faccia, rischiando quando è il momento di farlo. L'Alps hockey league non mi piace, preferisco un Merano-Appiano. Per ritrovare unità ci vorrebbe un campionato italiano con meno stranieri. Adesso gente allo stadio ne vedo poca, i conti non tornano e se penso a certe squadre in Alps Hockey League che giocano con stadi vuoti mi chiedo dove trovino le risorse».

Quanto ha inciso il grave infortunio a suo figlio Markus sulla scelta di abbandonare la scena?

«Fu un brutto momento, devo ammetterlo. Quando perdi un occhio durante una partita è sempre grave, ma purtroppo sono cose che devi mettere in preventivo e affrontarle. Negli anni la sicurezza nell'hockey è aumentata notevolmente. Io e la mia famiglia siamo andati avanti e ci siamo fatti coraggio, come sempre.

Con gli anni ha coltivato un'altra passione, il vino. Non riesce proprio a godersi la pensione... «Produco quasi 1300 bottiglie l'anno, ho nove diverse varietà di vino, bianco e rosso. E' un hobby che mi appassiona, ogni giorno con il mio fedele Gino (il cane di famiglia ndr) andiamo a controllare i nostri vigneti. Quest'anno sarà un'annata speciale, proprio come il mio tempo nell'hockey. Ogni giorno è speciale e va vissuto appieno».













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