LA STORIA

Se Salvini chiude i porti, Carmen apre la porta

Abdisamad, 19 anni, rifugiato somalo, era per strada. Una bolzanina lo ha accolto in casa


di Luca Fregona


BOLZANO. Lei è Carmen, bolzanina, insegnante in pensione. Lui è Abdisamad, 19 anni, somalo, rifugiato. Lei è cattolica. Lui è mussulmano. Lei ama i libri, lui il calcio. E questa è una piccola (grande) storia di perduta umanità. Succede che Abdisamad, scappato dalla Somalia a 16 anni, arrivato in Italia a 18 dopo un viaggio di due, sopravvissuto al deserto, ai lager libici, alla traversata del Mediterraneo, si trova, di colpo, di nuovo sulla strada. A Bolzano. Ha ricevuto l’asilo politico e non ha più diritto a vivere nel centro profughi della Caritas. Ma è senza lavoro, senza amici, senza nessuno. Quel giorno di inizio estate, Abdisamad va alle Scuole professionali di Oltrisarco per seguire un tirocinio da meccanico. Lì trova Sara Cappello, funzionaria provinciale, che da tempo cura progetti d’integrazione per giovani migranti. «Le ho detto - racconta - che non sapevo cosa fare, dove sbattere la testa. Lei mi ha aiutato».

Sara Cappello si muove, cerca qualcuno che possa ospitarlo, ma con il vento che tira non è cosa facile. Chiama al telefono la sorella Carmen. Le spiega la situazione. Carmen non ci pensa due volte: «Portalo qua - dice -, ho una stanza libera». Un gesto d’istinto. «Era giugno - racconta oggi Carmen nel salotto della sua casa di via Renon -. Salvini chiudeva i porti, io per reazione ho aperto la porta. Non sapevo chi fosse quel ragazzo, da dove venisse. Non sapevo nulla di lui, ma per nemmeno un istante ho avuto paura o un dubbio». Dopo un colloquio alla Caritas, Abdisamad va da Carmen. Lei gli dà la stanza del figlio che non vive più in famiglia. «C’erano i Mondiali in tv , abbiamo iniziato a guardare le partite insieme. Io non ci capivo niente, ma poi mi sono appassionata». La capriole di Neymar e i (pochi) gol del Brasile rompono il ghiaccio.

Abdisamad è timido e rispettoso. Parla bene l’italiano, che ha imparato nel centro d’accoglienza. È un ragazzo alto e troppo magro. Ha il sorriso largo e buono. E una storia dura alle spalle «È stato semplice legare - continua Carmen -. Abbiamo parlato molto da subito, anche di cose intime e profonde. Piano piano si è aperto. Mi ha raccontato del viaggio, della situazione in Somalia, della sua famiglia ormai divisa. Sono ragazzi più maturi dei nostri perché hanno vissuto a contatto con la precarietà e la morte». Abdisamad le sta seduto accanto sul divano. A 13 anni era già per strada. «Lavoravo in una specie di supermercato con mio fratello - ricorda -, dormivamo dove capitava. In Somalia non c’è futuro. Solo fame, disperazione, guerra e terroristi». A 16 decide di scappare. Da solo. Destinazione Europa. Un viaggio durato 2 anni e tre mesi: Yemen, Sudan, il Sahara. «Ventitré giorni nel deserto, la notte faceva un freddo cane. Eravamo partiti solo con quello che avevamo addosso». Una notte Abdisamad dà la sua giacca a un ragazzo che sta morendo di ipotermia. Lui resta in canottiera. «Io potevo resistere. Se non l’avessi fatto, lui non sarebbe sopravvissuto. Aveva già perso i sensi». Poi il campo di concentramento in Libia, dove prende la scabbia e la malaria. «Non potevamo lavarci, ci lasciavano in condizioni igieniche disastrose. C’era gente rinchiusa da quattro, cinque anni». Sevizie, botte, ricatti, uccisioni. «Non avevo soldi per corrompere le guardie. L’unica possibilità era tentare la fuga. E così ho fatto. Mi è andata bene». Riesce a salire su una carretta del mare. «Un viaggio orribile, sono stato male». Poi, finalmente, lo sbarco a Pozzallo, Sicilia, Italia. «Libertà. Sicurezza. Futuro», pensa.

Ma la realtà, per un clandestino, è diversa. A Pozzallo resta otto giorni, poi lo caricano su un pullman e lo portano a Bolzano, all’ex Gorio di via Macello. Da clandestino diventa “richiedente asilo in attesa del permesso di soggiorno”. Dopo otto mesi lo spostano a “Casa Sara”, gestita dalla Caritas ad Aslago. Un posto più sicuro e tranquillo della Gorio. Senza documenti non può lavorare ma, quando arrivano, deve lasciare la struttura. «Gli operatori della Caritas però continuano ad aiutarmi anche ora».

A casa di Carmen, intanto, le cose girano bene. Abdisamad inizia uno stage estivo in una carrozzeria di via Roma. «Otto ore al giorno, rientravo stanco morto. Carmen mi ha accudito come un principe. Lei è la mia seconda mamma». La sera cucinano insieme, ascoltano i gruppi di musica africana, si dividono le faccende domestiche, le pulizie, la lavatrice. Insomma, la convivenza funziona. «Ha provato anche a insegnarmi il somalo - ride Carmen -, ma con scarsissimi risultati...». Abdisamad trova un porto sicuro e un’amica. A Bolzano è sempre stato un estraneo, un invisibile. Neanche un amico “italiano”. Spezza il cuore, pensare all’ostilità e all’indifferenza che ha incontrato. Questa è l’Italia del 2018. Lui non si lamenta, ha la spalle larghe, ma la sofferenza si percepisce. Pochi giorni fa su un bus gli hanno urlato: «Negro!». «Negro, cosa fai qui?». «Negro tornatene a casa». «Negro non ti vogliamo». E hanno continuato fino a quando non è sceso. Lo racconta sottovoce, quasi per scusarsi. Ma, a scusarsi, dovremmo essere noi.

Accogliere è un atto umano e anche molto politico dice Carmen: «Questo bisogno di “fare qualcosa” per me, oggi, è un’esigenza più forte che mai. Non si possono chiudere le porte a persone che scappano da situazioni terribili. È un dovere civile: questi ragazzi hanno fatto esperienze bruttissime. Arrivano dopo un viaggio dove hanno visto ogni genere di crudeltà, e invece di comprensione e aiuto, si trovano davanti un muro». In Somalia la guerra civile devasta il Paese da oltre 20 anni, i profughi sono quasi due milioni. «Con che coraggio li rispediamo indietro?». Abdisamad è rimasto da Carmen per due mesi e mezzo, fino a quando è riuscito ad avere una casa tutta sua. Cosa resta di un’esperienza così? Per lui, Carmen è stata una seconda madre. Per lei, Abdisamad «è un figlio in più». «A chi non capisce - dice Carmen - consiglio di fermarsi a parlare con questi ragazzi. Vi garantisco che i pregiudizi si smontano da soli».

Abdisamad si fa malinconico quando pensa alla famiglia lasciati in Somalia, che forse non rivedrà più. Ma gli occhi si accendono quando pronuncia la parola “ futuro”. «Ho imparato una cosa importante - dice -: non mollare mai. Non ho paura del futuro. Non ne avevo nemmeno nel lager in Libia. So che domani sarà bello e limpido come l’alba sul mare». Con un lavoro da meccanico e un tetto solido sulla testa.

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