Costa, albergatore-filosofo «Il mio modello è Olivetti»

All’hotel Perla ogni decisione è presa assieme ai dodici capi reparto


di Antonella Mattioli


BOLZANO. «Il fascino di questo posto non sta in quello che c'è ma in quello che manca. Non abbiamo una spa da 5.000 metri. Da noi non viene servito il fegato grasso d’oca. Ci fossero, serviremmo vini ladini, e anche quelli australiani non li stappiamo. La radica pregiata la lasciamo alle pipe e il marmo l’abbiamo lasciato a Carrara. Nelle camere non ci sono legni pregiati indiani e manca il frigo bar. Non siamo un cinque stelle e non usiamo carta patinata per i nostri depliant. Qualcuno dice che il fascino di questo posto non sta in quello che c’è ma in quello che manca. Mancano le facce lunghe e mancano i clienti. Da noi si chiamano ospiti. Nella nostra Casa, nella nostra famiglia andiamo alla ricerca della bellezza servendo sorrisi e coccole». La filosofia di Michil Costa, 53 anni, e dell’hotel La Perla, è concentrata in queste righe che si trovano nella homepage dell’albergo, un quattro stelle, aperto nel 1956 dai genitori Ernesto e Anni a Corvara, e gestito assieme ai fratelli Matthias e Maximilian. Raffinato cultore di musica rock - ha una raccolta di 5 mila dischi in vinile - negli anni Settanta ha vissuto per un paio d’anni a Londra e per pagarsi il biglietto dei concerti faceva il lavapiatti. Costa è sempre andato controcorrente: allora contro la regina e l’alta società londinese, oggi contro il consumismo strumento necessario per produrre profitto, come unico valore. Con l’albergatore badiota, ospite ieri nella redazione dell’Alto Adige, abbiamo parlato della teoria del “bene comune” che applica all’interno della sua azienda - dai rapporti con i collaboratori fino alla scelta dei menu - alle nuove strategie turistiche imposte dai cambiamenti climatici.

L’Italia e una parte dell’Europa stanno vivendo un periodo di crisi profonda, quali le cause?

«Ingiustizia sociale e consumo del suolo».

La cura?

«Bisogna ripensare l’economia, cambiando i valori».

Facile a dirsi.

«Non dico che sia facile da attuare, ma il sistema si è inceppato. Bisogna cambiare: io l’ho fatto, introducendo nel mio albergo il concetto di bilancio del bene comune».

Utopia o realtà?

«Realtà che si basa su un codice di cinque principi: dignità umana, giustizia sociale, trasparenza, democrazia interna, solidarietà».

Belle parole ma la “giustizia sociale” in concreto come si traduce?

«Ad esempio in un’equa remunerazione di tutti coloro che lavorano nella nostra azienda. Ciò significa che se il lavapiatti guadagna 1, lo chef 5.3, io 7.6».

Lei comunque è un privilegiato.

«Lo ammetto».

E questo come si concilia con tutti i bei discorsi su solidarietà e bene comune?

«Che approfitto della mia posizione di privilegiato per sostenere, con la “Costa family foundation”, progetti a favore dei tibetani e dell’Uganda: in questi anni, grazie all’aiuto di amici, colleghi, ospiti, oltre che con la vendita di piatti e bottiglie abbiamo raccolto 540 mila euro».

Uno dei principi del suo codice è la democrazia interna: come la applica nel suo albergo?

«Nella mia azienda lavorano una novantina di persone. Ogni venerdì abbiamo una riunione con i 12 capi reparto: è lì che si prendono le decisioni».

Non capiterà mai che le sue decisioni non vengano accettate.

«Invece, si sbaglia. Spesso sono la Camusso della situazione».

Un esempio.

«Tempo fa, da un’indagine sulla soddisfazione dei collaboratori, era emerso che la lavanderia era considerata inadeguata. Avevamo un budget di 600 mila euro, io avevo proposto di ristrutturarla. Il capo barman disse che le stanze del primo piano erano un po’ vecchie e i soldi andavano investiti lì. Mi misero in minoranza, il consiglio dei capi reparto approvò quella proposta».

La sua è una sorta di azienda-famiglia.

«Il mio modello è quello di Adriano Olivetti».

Non c’è il rischio di eccessivo paternalismo?

«Sì c’è. Funziona solo se si ha la capacità di capire che bisogna mettere alla guida dei singoli reparti persone più brave di noi. Cosa che io ho fatto».

In questo clima idilliaco non capita mai di scontrarsi?

«Certo, tanto che dopo anni di collaborazione, si è interrotto il rapporto con lo chef: il nostro è stato uno scontro filosofico sulla gestione della cucina. A mio avviso era troppo duro con i collaboratori».

I vostri collaboratori sono più maschi che femmine?

«Sì, ma l’obiettivo è di arrivare al 50%. Mi piacerebbe dare sovvenzioni e aiutare a contrarre mutui alle donne che si sposano e vogliono figli».

Ci sarà la coda per venire a lavorare da voi.

«I collaboratori per noi sono importantissimi, per questo riteniamo giusto che mangino con noi o nel nostro ristorante stellato Michelin, e possano usufruire di tutti i servizi della nostra zona wellness. Per i massaggi pagano un prezzo politico che va poi nella cassa della Fondazione. In autunno abbiamo fatto due giorni di formazione per tutti e io e i mie familiari abbiamo fatto i camerieri: si sono invertite le parte».

Lei ha servito in tavola?

«No, io ho fatto il lavapiatti».

Su cosa non transige?

«Ai miei collaboratori è vietato bestemmiare».

Parliamo della sua filosofia applicata al menu.

«Cerchiamo i prodotti a chilometro zero. Non ci sono frutti di bosco in inverno né lo strudel di mele in estate, perché dovremmo usare le mele che arrivano dalle celle frigo. Niente vini stranieri ad eccezione di quelli francesi, patria del vino. Banditi i pesci che sono nella lista rossa di Greenpeace. No ai prodotti della multinazionale Nestlé e dal 2015 non serviremo più neppure la Coca Cola».

I clienti come reagiscono?

«Abbiamo perso clienti e guadagnato ospiti».

Gli ospiti russi condividono?

«Magari non condividono, ma fanno belle offerte alla Fondazione».

Parliamo di turismo.

«Va ripensato. Basta grandi strutture. Anche le zone wellness da 4 mila metri non vanno più».

Ma il cliente le vuole.

«Non è così. Noi da un anno gestiamo il “Ladinia” con 13 stanze stile anni ’30, non c’è spa e l’ospite neppure la chiede».

Il turismo invernale è basato sulla neve, peccato che nevichi sempre meno e sia sempre meno freddo.

«Gli impiantisti stanno facendo un lavoro egregio, ma dobbiamo fare i conti con i mutamenti climatici. Ciò significa che si dovrà puntare più sul turismo estivo. Si chiuderanno le strade e si useranno di più gli impianti per salire in quota».

Cos’è per lei il lusso?

«Tempo, tranquillità, spazio».

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