L'INTERVISTA marcella pirrone avvocatessa 

«Donne più sole dopo le ultime sentenze shock» 

Violenza. La socia storica nonché consulente legale della Gea:  «Dopo anni di battaglie per la conquista di una serie di diritti si sta tornando indietro: le vittime fanno fatica ad esser credute»


ANTONELLA MATTIOLI


BOLZANO. «Non è vero che i centri antiviolenza chiudono durante i fine settimana e le vacanze. In Alto Adige come in varie parti d' Italia non è così. A Bolzano la casa per le donne che subiscono violenze è gestita dall’associazione Gea; a Merano dall’associazione Donne contro la violenza; a Bressanone dalla Comunità comprensoriale: in tutti e tre i casi c’è una operatrice che risponde 24 ore su 24, 365 giorni all’anno. Ci sono altre due case, rispettivamente a Bolzano e Brunico, che offrono un servizio altrettanto importante, ma non h24. Il personale è preparato: ascolta, consiglia, aiuta a trovare una soluzione che in molti casi deve essere immediata». L’avvocatessa Marcella Pirrone, socia storica e consulente della Gea, nonché vicepresidente dell’associazione Wave (Women against violence europe), replica così a Francesca Bagaglia, psicologa forense e del lavoro, che in un’intervista sull’edizione di martedì dell’Alto Adige, ha parlato delle carenze del sistema, da quello preventivo e di indagine a quello giudiziario, che rendono ancora più difficile la decisione di denunciare da parte della donna vittima di violenza dentro e fuori le mura domestiche.

«Intendiamoci - ammette Pirrone - i problemi ci sono eccome. Anzi, di questi tempi, il rischio è di perdere i diritti, frutto di anni di battaglie delle donne. Ma dire che i centri antiviolenza fanno orario d’ufficio non solo è sbagliato, ma fa sentire ancora più sole le vittime, che in mezzo a mille dubbi e sensi di colpa, alla fine trovano il coraggio di denunciare».

Invece è importante sapere che in Alto Adige una donna vittima di violenza può chiamare anche nel cuore della notte nelle strutture create ad hoc.

È così. Le risponderà un’operatrice e se necessario assieme si troverà immediatamente una sistemazione alternativa, per evitare che la situazione possa degenerare.

Purtroppo però in Italia più d’una Casa per le donne negli ultimi anni ha chiuso per mancanza di fondi o sta per chiudere.

Questo anche perché i pochi fondi che ci sono vengono spesso utilizzati per iniziative-spot fatte da persone che non hanno né la preparazione né la formazione adeguate. Però adesso sono temi che “tirano” e c’è chi ne approfitta. Oggi e domani sono a Roma in quanto assieme alla collega trentina Elena Biaggioni - con cui ho coordinato il “ Rapporto Ombra GREVIO” redatto da una trentina di associazioni ed esperte sull'applicazione in Italia della Convenzione di Istanbul per la prevenzione e la lotta alla violenza sulle donne - incontro le esperte del Consiglio d'Europa. L' occasione è il monitoraggio dell'Italia che si concluderà quest’autunno con una sorta di pagella rilasciata dall’Europa al nostro Paese che temo ne uscirà piuttosto male.

Questo vale anche per l’Alto Adige?

No. L’Alto Adige da questo punto di vista è un modello virtuoso. C’è la legge provinciale che garantisce i fondi pubblici per i centri antiviolenza e le case dove vengono ospitate le vittime con i figli.

Più in generale, lei ritiene che servirebbero nuove leggi, più severe.

Non servono nuove leggi. Al massimo basterebbero delle integrazioni. In generale comunque le leggi ci sono, bisogna semplicemente applicarle. Sa qual è il problema in Italia?».

Qual è?

È di tipo culturale.

In che senso scusi?

Nel senso che ci sono ancora troppi pregiudizi nei confronti della donna che spesso, dopo aver subìto per troppo tempo, trova il coraggio di denunciare.

Non viene creduta?

Diciamo così: se una donna va a denunciare un furto, nessuno mette in dubbio che non sia vero. Se una donna denuncia una violenza, è tutto più complicato. Più difficile crederle, perché come detto scattano pregiudizi e stereotipi. Anche l’acquisizione delle prove può essere complicata e capita spesso che tante denunce finiscano con un’archiviazione.

Anche le recenti sentenze non aiutano: a Bologna la Corte d’appello ha dimezzato la pena all’assassino di una donna con cui aveva una relazione da un mese, in quanto “vittima di una tempesta emotiva”; di ieri la notizia della condannata a 16 anni invece che a 30 come chiesto dal pubblico ministero dell’uomo che, a Genova, ha accoltellato la compagna. Gli hanno concesso le attenuanti in quanto “deluso e disperato”.

Rischiamo di tornare indietro. Di questo passo tra un po’ verrà riesumato il diritto d’onore.

Per non parlare della sentenza della Corte d’appello di Ancona in cui i giudici scrivono tra l'altro che la vittima era troppo mascolina e poco avvenente per essere oggetto di attrazione sessuale. La sentenza d'appello che assolveva i due giovani imputati è stata comunque annullata con rinvio dalla Corte di Cassazione. A stupire è il fatto che la corte era formata da tre giudici donne.

Io invece non sono affatto stupita e tanto meno meravigliata. La cultura imperante è quella maschilista e, in questo clima, capita che le donne siano più realiste del re. La conseguenza è che d’ora in poi la vittima, che già fa fatica a denunciare perché sa che non è scontato che le credano, ci penserà non una, ma mille volte. Quello che sta succedendo, in Italia, nell’ultimo periodo, è scandaloso: il messaggio che esce dalle recenti sentenze è devastante. La donna si sentirà sempre più sola davanti a fidanzati, mariti, compagni violenti. Questo faremo capire oggi alle esperte europee.

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