Fathia, il primo avvocato con il velo

La storia di Mokhtari, metà marocchina e metà italiana: dalla collina Pasquali alla laurea conquistata con tanti sacrifici


di Antonella Mattioli


BOLZANO. Il tailleur pantalone scuro, la camicetta bianca a righine azzurre e lo “hijab”, il velo islamico grigio perla, hanno preso il posto del giubbotto e dei jeans: quando l’avevamo incontrata sette anni fa Fathia Mokhtari, marocchina, era una studentessa dell’ultimo anno dell’Itc Battisti, la prima a Bolzano ad essere diventata cittadina italiana. Oggi è una donna di 26 anni, che vive dentro di sé la cultura marocchina e quella italiana, e sta facendo il praticantato presso lo studio dell’avvocato Domenico Laratta. L’abbiamo invitata in redazione - all’incontro ha partecipato anche il direttore Alberto Faustini - per raccontare la storia di un’immigrata di seconda generazione che ce l’ha fatta e si è perfettamente integrata.

I suoi genitori da quanti anni vivono in Italia?

«Mio padre ha lasciato il Marocco nel 1979: voleva rifarsi una vita. Poi è arrivata anche mia madre e mia sorella Salima, che oggi ha 28 anni ed è nata in Marocco. Io sono nata a Potenza, ma mi sono trasferita a Bolzano che ero molto piccola».

Prima casa?

«I container allestiti alla collina Pasquali, oggi vivo a Don Bosco».

Ricordi di quel periodo?

«Nessuno in particolare. Diverso era il clima generale: allora forse c’era paura nei confronti del diverso, oggi c’è una certa discriminazione».

Su di sè ha vissuto questa sensazione di discriminazione?

«No. Ho vissuto come una cosa assolutamente normale il sentirmi per metà italiana e per metà marocchina. Anche se allora nella mia classe delle elementari, alle Don Bosco, ero l’unica straniera. Oggi nelle scuole altoatesine gli immigrati sono sempre di più. Le medie le ho fatte alle Leonardo da Vinci e poi mi sono diplomata all’Istituto tecnico commerciale».

Come è nata l’idea di iscriversi a Giurisprudenza?

«A scuola il Diritto mi è sempre piaciuto anche se il mio sogno sarebbe stato fare Medicina. La laurea comunque mi sembrava un obiettivo che non sarei mai riuscita a raggiungere. Alla fine, non so neppure perché - forse perché è una facoltà che ti offre diverse possibilità - ho optato per Giurisprudenza a Bologna, dove mia sorella stava già frequentando Economia».

È stata dura?

«È stata dura perché sapevo che i miei genitori stavano facendo enormi sacrifici per farci studiare. Ma anch’io mi sono rimboccata le maniche: ho fatto dalle pulizie alla commessa, alla baby sitter per non pesare troppo sui miei. Quelle esperienze mi sono servite a capire che alla fine studiare è la cosa più semplice».

Tra tante possibilità perché ha scelto di fare l’avvocato?

«Io mi sono laureata un anno fa, in questo momento sto facendo soprattutto Penale e mi piace l’idea di poter aiutare gli altri: lo fa il medico ma può farlo, in modo diverso, anche l’avvocato».

In casa che educazione ha ricevuto?

«A me, mia sorella e mio fratello più piccolo Brahim, 16 anni, mio padre ha lasciato grande libertà. Per lui le cose più importanti sono sempre state essenzialmente due: educazione in casa e scuola».

Quando era una studentessa non portava il velo: come mai questa scelta tardiva?

«Mia madre e mia sorella lo portano, ma in casa nessuno mi ha mai detto “mettilo”: è stata una mia scelta».

Non si sente guardata in maniera strana?

«No».

C’è una certa riscoperta da parte di molti giovani nati qui delle proprie origini.

«La fede è cultura, è un modo di vivere e di comportarsi. Maturando cresce anche la curiosità di conoscere ed è quello che è successo a me».

Aumentano i reati commessi da immigrati e con essi la diffidenza.

«Lo so e mi dispiace. Quando leggo fatti di cronaca che coinvolgono extracomunitari mi viene la tristezza e mi sembra logico che scattino determinati meccanismi, ma sarebbe sbagliato fare di tutte le erbe un fascio. I delitti non hanno colore. E poi bisogna sempre pensare che a fronte di chi commette reati, ce ne sono molti di più che si sono integrati e conducono una vita normale».

I suoi amici chi sono?

«Di tutte le nazionalità. I legami più forti però li ho costruiti durante l’università con ragazze e ragazzi italiani».

Se dovesse pensare ad un compagno?

«La nazionalità mi è indifferente: mi piacerebbe però fosse musulmano».

Mai messo in conto di trasferirsi in Marocco?

«Ci vado una volta all’anno. Lì mi sento a casa come in Italia. Ma pensare di fare l’avvocato in Marocco sarebbe dura, innanzitutto per una questione linguistica: l’arabo lo conosco, ma non bene come l’italiano che per noi extracomunitari è diventato una sorta di inglese europeo».

Come vede il suo futuro?

«L’Italia si riprenderà e per noi giovani ci saranno nuove chance».

Una cosa che le piacerebbe fare?

«Ripagare i miei per tutti i sacrifici fatti».

Nel tempo libero cosa fa?

«Volontariato con un’associazione islamica».

Cosa pensa delle discussioni che ritornano periodicamente sulla moschea?

«Penso che sarebbe utile per tutti: agli italiani darebbe la possibilità di superare le diffidenze conoscendo usi e costumi della tradizione musulmana».

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