scienza e società

Genetica a rischio razzismo?

Nella ricerca genetica affondano le speranze di nuove frontiere della medicina e anche di risoluzione di misteri sul perché della vita. Ma in questo clima di attesa, quasi religiosa, c'è anche chi guarda con prudenza e mette in guardia. C'è chi teme che la ricerca genetica getti le fondamenta di un nuovo “razzismo”. Ecco perché.


Mauro Fattor


Certo non si può dire che a Stefano Fait, giovane antropologo ed etnografo trentino dell'Università scozzese di St.Andrew, manchino la curiosità intellettuale e il coraggio di infilarsi in questioni spinose e, fosse anche solo per questo, tanto più interessanti. Sull'ultimo numero degli Annali del Museo degli Usi e Costumi di San Michele all'Adige - numero interamente dedicato alla figura e all'opera di Giuseppe Sebesta e uscito appena pochi giorni fa - Fait firma uno stimolante intervento dal titolo «La frontiera nascosta e gli studi di popolazione», in cui esamina i problemi metodologici e sociopolitici relativi alla mappatura genetica di popolazioni nell'area alpina e nel resto del mondo. La preoccupazione di fondo è che le più recenti e moderne ricerche sulla genetica di popolazione stiano riproponendo, in modo inconsapevole, dinamiche proprie degli studi razziali, i quali finivano con l'essenzializzare gruppi umani ed individui assegnandoli al «posto giusto» nella gerarchia naturale e, di riflesso, sociale. E questa tentazione è sempre in agguato, direttamente o indirettamente.

«L'utilizzo del termine popolazione - scrive l'antropologo trentino - non è garanzia sufficiente contro l'abuso e la manipolazione di dati scientifici: nel corso della prima metà del secolo scorso, il termine «razza» non era molto più controverso dell'attuale termine «popolazione». Inoltre, non si capisce come distinzioni su base genetica possano essere meno strumentalizzabili delle classiche distinzioni razziste su base somatica». Tutto giusto. Il guaio è che chi fa ricerca in questo campo questo problema non se lo pone quasi mai, o comunque non abbastanza. Le modalità di comunicazione dei risultati, la delicatezza della materia e i rischi connessi all'impatto di queste informazioni sull'opinione pubblica, sono sistematicamente sottovalutati. La scienza - da sempre, verrebbe da dire - è incapace di occuparsi di se stessa, della portata politica, sociale, morale di ciò che va facendo. L'intelligenza di scienziati e ricercatori è al servizio di una attività che, avendo come prerogativa principale la descrizione neutrale della realtà, diventa inevitabilmente «stupida», cioè evita per sua stessa natura di porsi problemi che siano diversi dall'oggettività dei risultati. «Ho capito che c'era qualcosa che non funzionava - racconta Fait - quando ad un convegno, dopo la presentazione dei risultati di una ricerca sulla struttura genetica di alcuni gruppi ladini, ho sentito un signore in sala commentare dicendo: «ecco, vedi che allora siamo proprio diversi». Discorso che mi ha fatto gelare il sangue.

In una parte del pubblico, forse la meno attrezzata, stava passando l'idea che a una differenza linguistica, o al massimo culturale in senso più generale, corrispondessero anche caratteri genetici distinti». Compiaciuta consapevolezza di alterità. Genuinamente razzista. In Alto Adige l'Istituto di Medicina Genetica dell'Eurac, nato nel 2004 da un progetto chiamato Neuro Epidemiologic Project SouthTyrol è oggi impegnato nel progetto GenNova, il cui scopo è lo studio delle malattie genetiche in provincia di Bolzano. L'equipe coordinata dal dottor Peter Pramstaller sta portando avanti un programma di biorilevazione dei micro-isolati altoatesini, ossia di popolazioni isolate che discendono da poche famiglie di fondatori e che quindi si caratterizzano per una minore variabilità genetica e ambientale, risultando particolarmente adatte ai fini della mappatura genetica. «Sfortunatamente - scrive Stefano Fait - la copertura da parte dei mezzi d'informazione è talora caratterizzata da residui di retorica cripto-coloniale ed etnocentrica, con ripetuti inviti al pubblico ad immergersi nella purezza pristina, quasi virginale, di realtà valligiane tanto diverse da quelle urbane. La memoria tristemente rievoca certe tematiche e slogano del secolo scorso che si ancoravano alla supposta esistenza di un Homo Tirolensis per alimentare aneliti pangermanisti o rinfocolare antiche diffidenze tra popolazioni limitrofe. Così come - continua il giovane antropologo - in Trentino, nelle valli ladine, la nozione di omogeneità etnica derivata da un'arbitraria interpretazione dei dati genetici ha rafforzato talora la convinzione di possedere una specificità morale e spirituale». In un contesto caratterizzato da coesistenza pacifica e serena non si tratterebbe necessariamente di un problema, ma sempre secondo Fait, altrove la rappresentazione di un'alterità antropologica di questo tipo, cioè basata su una presunta diversità genetica, si è già saldata con interessi politici a sostegno di movimenti separatisti, etnocratici o espansionisti. E chiaramente in Alto Adige questo rischio esiste. «Mi rendo conto che la materia è estremamente delicata - afferma il ricercatore trentino - ma proprio per questo ho ritenuto opportuno segnalare il problema».

Il rischio, Fait non si spinge tanto in là dal dirlo, ma lo si intuisce chiaramente - è quello che i genetisti di popolazione dell'Eurac comunichino una sorta di mistica del micro-isolato quale luogo di purezza originaria, intesa come omogeneità genetica. «Se la differenza tra lo studio delle razze e lo studio delle popolazioni consiste nel fatto che le razze venivano considerate come unità fisse, mentre le popolazioni sono unità variabili e mutevoli - scrive l'antropologo - passeremo semplicemente da un razzismo tipologico ad un razzsimo statistico». Che cosa significa allora guardare ad un campione di persone presupponendo che possano sviluppare una certa patologia in quanto membri di una certa popolazione? La risposta di Fait è indiretta ma chiarissima: «È indispensabile che i genetisti di popolazione comprendano che i propri predecessori razzisti americani e tedeschi degli anni Trenta, ossia i fondatori della genetica di popolazione, su questo punto fossero stati inequivocabili, asserendo che non di distinzioni nette si trattava, ma di predisposizioni. Insomma, non si tiene conto del fatto che, nel corso dei millenni si sono create delle gradazioni di differenziazione così sottili che è impossibile marcare dei confini biologici».













Altre notizie

Attualità