Gli amici di Manuel Moroder: «La montagna per noi è tutto. È stato sfortunato»

Gli amici di Manuel: «Lo scialpinismo è imprevedibile, poteva capitare a noi. Cominciamo ad arrampicarci e sciare da bambini. E’ nel nostro dna»


di Matteo Ciangherotti


ORTISEI. «Capita una sola volta di finire dentro una valanga, quella volta è anche l’ultima». Al cimitero di Ortisei sono le tre del pomeriggio quando nei pressi della cappella funeraria dove è chiuso il corpo senza vita di Manuel Moroder arriva un gruppo di ragazzi tra i 15 e i 16 anni. Sono coetanei. Sconvolti, increduli che una loro montagna, la cima Pic, si sia portata via un loro amico. Compagno di avventure, perché insieme a loro Manuel amava e praticava lo sci alpinismo d'inverno e la scalata d'estate.

Li chiamano i «Leoni della Val Gardena» ma ieri pomeriggio tra la neve e il freddo di un cimitero non c'è più spazio per sentirsi i re della montagna.

Uno di loro se n'è andato, trascinato via da una valanga che lui stesso con la discesa sugli sci ha provocato. Cinquecento metri lungo un canalone, un attimo e poi Manuel è sparito tra la neve, il ghiaccio, i massi di roccia, i ceppi e gli arbusti. Ora dentro a questa piccola e sospesa cappella funeraria di un cimitero che giace davanti alla funivia, il luogo prediletto dai turisti, lo stesso che ieri mattina ha portato in cima al monte Manuel, adesso lì dentro c'è il corpo tumefatto di un loro amico. «Manuel, lo conosco, e non è una persona imprudente», mi racconta stretto dal dolore e dall'incredulità un suo amico. E poi mi sconvolge. Gli chiedo perché ieri, con la neve fresca che è caduta fino a sabato e con il forte vento che ha soffiato fino alla notte scorsa, perché ieri con il rischio 4 emanato dal bollettino delle valanghe, perché salire e scendere da quel monte su un fuoripista? «Le valanghe sono e restano imprevedibili. La prima che vedi è, molto spesso, pure l'ultima. Puoi prevedere tutto, o quasi, puoi avere tutta l'attrezzatura necessaria (l'Arva, la sonda e la pala n.d.r.), ma una valanga no, quando arriva, arriva».

La risposta esemplifica perfettamente la percezione che questi giovani «leoni» hanno di sé e della montagna. Un rapporto di amore e odio fino nel fondo del cuore. Manuel, come altre mille volte (perché in Gardena si inizia a 12 anni con lo scialpinismo e ancora prima con la scalata), si è alzato di buon mattino e dalla finestra di casa sua ha ammirato il sole splendere sulle rocce delle sue Dolomiti. Sole e neve fresca, il massimo per un 15enne che lo scialpinismo e il freeride ce l'ha nel sangue. «Qui tutti noi abbiamo la montagna nel sangue e così i nostri padri che ci hanno trasmesso questa passione». Per questi «leoni» che stanno aspettando di vedere Manuel, o quel che resta di lui, chiuso e ricomposto dentro una bara, il rischio è qualcosa di calcolato, come se questa tragedia l'avessero scritta e immaginata altre mille volte. «Poteva capitare anche a noi». E forse potrà capitare, perché nessuno di questi 16enni (classe 1997), certo, appenderà gli sci ai chiodi. Sono lucidi e conoscono quel che fanno: «Quando scali sei tu con le tue azioni e la salita dipende da te, dalle tue mosse; lo scialpinismo è diverso, una valanga resterà per sempre qualcosa di imprevedibile». La neve se ne frega. Se ne frega e quando è appena caduta a terra, fresca si fa trasportare dal vento lungo le creste della montagna. Così si formano quei tanto temuti accumuli che basta un niente, un attimo, un passaggio sugli sci, per smuoverli e innescare una valanga. Sempre la stessa storia, a ripetere e convincerci che la montagna non è mai a rischio zero. Quando la salma di Manuel, spogliata dei vestiti finiti in un sacco nero, esce dalla cappella del cimitero di Ortisei, il sole è sotto la cresta.

Gli amici di Manuel sono già andati via, non hanno avuto la forza di guardare, di mettere la faccia dentro la neve. La bara in legno viene caricata sul furgone delle pompe funebri di Ortisei e sale il paese attraverso vicoli stretti e ghiacciati. Manuel ritorna a casa per l’ultima volta. Nell’appartamento di via Grohmann ad attenderlo ci sono il padre Hugo, la sorella Elisabetta e il fratello maggiore Aaron, esperto alpinista che fa già parte del soccorso alpino dei Catores. E’ proprio Aaron a scendere le scale esterne e a caricarsi sulle spalle la salma del fratello. La porta dai suoi genitori come mai avrebbe voluto o immaginato. Fa troppo freddo per parlare, per dare un nome al dolore. Manuel e la montagna erano sempre stati una sola cosa. Fino a ieri. Quando si sono separati e insieme hanno fatto a pezzi il destino.

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