Il campanile nel lago.Così un dramma diventa icona turistica

Mostra sulle centrali, il caso Curon


Paolo Valente


Il campanile della vecchia chiesa di Curon che emerge dal lago di Resia, oggi icona del turismo dell’Alto Venosta, è anche il simbolo del rapporto controverso del territorio con la modernità e con lo Stato che, ad un certo punto, la impose.
Scrive Andrea Bonoldi nell’introdurre il volume «I cantieri dell’energia - 1946-1962. Impianti idroelettrici in Val Venosta e nelle Alpi centrali» (libro che la Fabbrica del Tempo sta presentando in questi giorni e che oggi approderà a Merano al Centro della Cultura di via Cavour, alle 18.30): «L’impatto sul territorio delle grandi realizzazione idroelettriche in una valle alpina come la Venosta non si presta a essere letto soltanto alla luce del contrasto tra una società tradizionale e legata a un profondo vincolo con l’ambiente e le montanti esigenze di uno sviluppo economico accelerato, affamato d’energia, e sostenuto dall’innovazione tecnologica e rappresentato da gruppi industriali potenti e ben organizzati, ma anche nell’ambito della tensioni tra la popolazione autoctona e lo Stato italiano.
E così la sommersione del paese di Curon e di Resia assunse un significato che andò al di là della pur drammatica esperienza di chi aveva dovuto abbandonare una terra cui era profondamente legato».
Abbiamo chiesto allo storico meranese Carlo Frajria Moeseneder, che ha curato nel libro il ricco saggio che concerne questo tema, che idea si è fatto dell’intera questione.

Il campanile di Curon oggi è un’immagine da cartolina: che cosa si cela dietro quell’immagine?
«Il dramma di una comunità che ha visto scomparire il proprio paese. Un evento che va oltre al danno puramente economico. Con la sommersione di Curon sono scomparsi luoghi conosciuti, modi di vita, ruoli e relazioni tra le persone: in una parola gli abitanti del vecchio paese, sia coloro che sono rimasti, sia coloro che sono emigrati, hanno dovuto ricostruire la propria «Heimat», un cammino non semplice e che nessuno può risarcire»

Il significato attribuito alla sommersione del paese di Curon andò oltre il semplice fatto in sé e coinvolse diverse istanze a livello nazionale e internazionale.

«Lo sfruttamento delle acque a scopo idroelettrico ha coinvolto le vallate di entrambi i versanti dell’arco alpino a partire dall’ultimo scorcio del XIX secolo e ha avuto un ruolo importante nella loro trasformazione socio-economica. Vi sono naturalmente delle differenze dovute alle legislazioni in materia vigenti nei vari paesi, alle politiche economiche,al potere decisionale delle comunità locali rispetto all’entità statale, alla presenza in loco di capitali e di una classe imprenditoriale aperta all’innovazione. All’inizio di questo processo, contestualmente alla costruzione di impianti idroelettrici di una certa dimensione furono realizzati anche degli impianti industriali che potessero sfruttare al meglio l’energia prodotta, ma in seguito, quando l’innovazione tecnologica ha permesso il trasporto dell’energia anche sulle grandi distanze, la produzione energetica delle vallate alpine è stata dirottata in gran parte verso i centri industriali pedemontani e delle pianure. Le vallate alpine hanno dovuto giocoforza trasformare la loro struttura economica, passando da un’economia prevalentemente agricola di tipo tradizionale a una struttura più variegata, pena lo spopolamento. Naturalmente la costruzione degli impianti idroelettrici è solo un aspetto del generale processo di industrializzazione. La costruzione di centrali e di grandi bacini a breve termine non ha portatograndi vantaggi alle realtà alpine. A lungo termine dei vantaggi ci sono stati, pensiamo allo sfruttamento turistico dei laghi artificiali, o all’apertura di strade in vallate che prima erano isolate. Naturalmente non dobbiamo dimenticare i costi di questa trasformazione, basti pensare alla tragedia del Vajont.
Per quanto riguarda l’Italia dobbiamo sottolineare che più degli altri paesi aveva bisogno di sfruttare le potenzialità idroelettriche essendo priva di altre fonti energetiche. In particolare nel secondo dopoguerra la carenza energetica era il maggior ostacolo per poter procedere alla ricostruzione e al rilancio economico. Fino agli anni sessanta del secolo scorso, mancava però in Italia una razionalizzazione della produzione elettrica e un coordinamento delle forze produttive. Ciò era dovuto alle politiche economiche intraprese nella prima metà del secolo XX e alla spietata concorrenza tra le grandi società produttrici di energia elettrica».

Che idea si è fatto dell’intera vicenda?
«La vicenda che ha coinvolto i paesi della Val Venosta rispecchia le dinamiche che si sono avute nel resto dell’arco alpino ma vi sono delle differenze dovute alla particolare situazione politica dell’Alto Adige in quegli anni. In seguito alla politica del regime fascista industrializzazione divenne, per la popolazione sudtirolese, sinonimo di italianizzazione forzata e tentativo di annientare le radici culturali della propria terra. Solo il maso e la cultura contadina, che non era stata intaccata dai tentativi di assimilazione, rimaneva come baluardo dell’anima del Sudtirolo. Per questo la sommersione di Curon, oltre a essere un dramma per la popolazione colpita, assunse il carattere simbolico di un attacco al «maso» quindi all’essenza stessa della loro «Heimat». Anche da parte italiana i grandi impianti idroelettrici assunsero una valenza simbolica. La guerra era appena conclusa e bisognava ripartire da capo. C’era inoltre, come abbiamo detto, una enorme necessità di energia per far ripartire i processi industriali. Le dighe, ma anche tutte le grandi realizzazioni di quel periodo diventarono il segno tangibile di una nazione che sapeva reagire ed essere al passo con gli altri paesi economicamente avanzati. Non contava se per costruire queste grandi opere qualcuno ci rimetteva, ritenendo tutto ciò un sacrificio necessario per il bene della nazione. Questa mentalità pervadeva tutti gli strati sociali della popolazione italiana, dall’imprenditore al semplice manovale: tutti erano orgogliosi di poter partecipare al progresso del Paese. Si tratta quindi di due visioni inconciliabili tra loro, che contribuirono ad inasprire lo scontro politico lungo gli anni cinquanta, fino ad arrivare da una parte agli attacchi dinamitardi alle linee dell’alta tensione, dall’altra al lungo e faticoso cammino che si concluse con il varo del secondo statuto di autonomia».













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