BOLZANO

Jihadista di Merano ammette: "Sono stato in Iraq"

 Goran Fatah Mohamad ha detto di aver consegnato un pacco sospetto: "Sono stato raggirato, pensavo fosse il Corano"


di Mario Bertoldi


BOLZANO. C’è chi nega tutto, chi invece accusa gli altri componenti della cellula jihadista meranese di averlo ingannato per portare a conclusione alcune missioni di cui non avrebbe avuto modo di rendersi conto. L’interrogatorio di garanzia davanti al giudice delle indagini preliminari Walter Pelino, ieri nel carcere di Bolzano, è durato più del previsto.

È stato Goran Fatah Mohamad, iracheno, 29 anni, a far saltare le previsioni della vigilia. Gli avvocati difensori avevano annunciato che, per questioni di tattica processuale, avrebbero invitato i proprio assistiti a non rispondere alle domande, vista la necessità per la difesa di prendere visione approfonditamente del quadro accusatorio. Cinque anni di indagine, pedinamenti, intercettazioni ambientali, telefoniche e telematiche hanno prodotto faldoni di prove reali e presunte ed il quadro che ne è emerge non è semplice. Lo dimostra anche l’ordinanza di custodia cautelare firmata dal Gip di Roma: 1217 pagine costituite in gran parte da intercettazioni e relazioni dei Ros. Per il momento gli avvocati difensori hanno cercato di sminuire l’importanza degli elementi a carico del gruppo ma la situazione pare oggettivamente pesante. Ieri mattina, nel corso dell’udienza di garanzia davanti al giudice Pelino, se n’è reso conto anche uno degli indagati (Ali Salih Abdullah, iracheno di 38 anni) che, dopo aver compreso bene il quadro accusatorio, ha accettato il consiglio dell’avvocato Stefano Zucchiatti di non rispondere alle domande del giudice, negando però, in lacrime, di essere un terrorista. Poi è tornato in cella. Sul procedimento inizia inevitabilmente a pesare, sotto il profilo psicologico, anche quanto è accaduto a Parigi. Anche gli indagati si rendono conto che oggi più che mai nessun giudice può essere indotto a non valutare con estrema severità e attenzione la pericolosità di un gruppo jihadista che intendeva reclutare giovani terroristi per seminare terrore e morte in Norvegia allo scopo di ottenere la liberazione del capo religioso e militare del gruppo e cioè il mullah Krekar. Non è certo tempo di sottovalutare determinati allarmi. Anche probabilmente sotto questo peso psicologico ieri uno degli arrestati ha deciso di andare controcorrente e (assistito dall’avvocatessa Claudia Benedetti) ha risposto alle domande del giudice per due ore e mezza con un obiettivo difficile e pericoloso: ammettere buona parte degli episodi a lui attribuiti sostenendo però di non aver mai sospettato la natura terroristica dei vincoli di collaborazione, rinnegando la condivisione di un progetto terroristico, sostenendo di aver avuto contatti con il mullah Krekar via internet solo per questioni religiose ed asserendo di essere stato, in alcune occasioni, usato dal gruppo a sua insaputa.

È quanto ha detto al giudice Goran Fatah Mohamad che ha ammesso di aver effettuato un viaggio in Iraq nel 2013 per consegnare un pacco contenente materiale elettronico (probabilmente destinato al confezionamento di ordigni ad alto potenziale). Mohamad però si è difeso sostenendo che gli sarebbe stato fatto credere che il pacco contenesse semplicemente una versione elettronica del Corano e nulla più. L’indagato ha comunque ammesso di conoscere gli altri presunti jihadisti coinvolti nell’inchiesta ma sempre negando di aver avuto un ruolo operativo all’interno della cellula. Ha anche ammesso di aver avuto diversi colloqui con persone attive sul fronte del terrorismo internazionale ma ha cercato di difendersi sostenendo che i contatti sarebbero stati interpretati male dagli inquirenti. Lo stesso Mohamad ha dovuto comunque ammettere che i contatti c’erano, con l’aggravante che in diverse intercettazioni ambientali proprio Mohamad viene indicato come membro della cellula italiana dell’organizzazione terroristica “Rawti Shax”.













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