«Le identità? Una trappola Siamo persone, non popolo» 

Lo storico Obermair: «Salvini dai Kastelruther vuol dire “prima i sudtirolesi”» Il giurista Palermo: «Anche le parole hanno un peso. Più Europa meno bandiere»


di Paolo Campostrini


BOLZANO. Ma che c’entrano i Kastelruther Spatzen con la malattia dell’identità, professore? «Allora chiediamoci: cosa ha fatto Matteo Salvini, il vicepremier, per comunicare di essere "uno di noi" quando è arrivato in Alto Adige? É andato al loro concerto. Nel codice identitario - dice lo storico Hannes Obermair - è un segnale preciso». L’identità ci fa parlare, ci scrive le parole prima di pensarle. E non solo scrive. Anche prescrive. «Le nostre leggi sono piene di richiami identitari. Le normative individuali - osserva il giurista Francesco Palermo - sono libere. Pensiamo a quelle di genere nei Paesi democratici. Ma le leggi collettive no. Ci trovi dentro l’identità perchè scritte dalla maggioranza. É una schizofrenia in cui l’identità entra o esce a seconda che si tratti di persone o di gruppi». E non è un caso. Perchè è nel gruppo che si annida la trappola identitaria. Quel richiamo della foresta che ci fa sbandare, sbagliare spesso strada, dimenticare di essere prima uomini e donne e poi "popolo". Che è una convenzione. «Noi non scegliamo di nascere bianchi o neri. O europei o asiatici. É tutto un caso, come il colore degli occhi. E dunque - si chiede ancora Obermair - perchè siamo qui adesso? Anche questo è un caso. Dunque non meniamo vanto di un accidente e cerchiamo invece di gestire al meglio il nostro essere come siamo, diversi da quello che arriva da un’altra parte...».

Questa dunque, la trappola.

Di cui noi, altoatesini o sudtirolesi, siamo spesso vittime. A volte inconsapevoli. Perchè i codici, le parole vanno e vengono e del loro significato, delle trappole che ci tendono, neppure ci accorgiamo. Ecco, le parole. E proprio gli scrittori e gli autori, tra cui Obermair e Palermo, si sono confrontati ieri all’Eurac in un incontro come ce ne sono pochi. Il titolo: "Ma cos’è questa identità (nazionale)?". Con una presenza forte di chi questo richiamo della foresta lo conosce bene, ne ha colto le emergenze e saggiato le conseguenze, come gli scrittori balcanici, dalla Ivancic a Arsenijevic, ad Adnan Softic e a Milena Beric. Perchè laggiù, cioè a un passo dal nostro confine, il ricatto della religione "collettiva", della lingua e della razza ne ha fatte di tutti i colori. Ucciso donne e bambini, torturato, creato mostri. E ha anche coinvolto persone con la testa, intellettuali e brava gente. Con gli ospiti dall’Est, anche Stefano Zangrando, Maxi Obexer, Rut Bernardi. Il tutto coordinato dall’"Unione autrici e autori Sudtirolo" e da Francesco Palermo, dell’Eurac. A parlare in tempi in cui i populismi si appellano all’identità nazionale ovunque, in Italia, in Europa e nel mondo. Spesso strumentalizzandola contro le presunte conseguenze stranianti dell’immigrazione. L’Alto Adige, poi, è in prima linea. Quanti di noi hanno fatto il callo a domande del tipo: come ti senti? Italiano, austriaco, tedesco... E alla condizione a volte fuorviante in senso identitario di essere minoranza e di cercare sicurezze altrove e non "stando in mezzo"? Qui siamo anche pratici del concetto di "identità collettiva". Che per Hannes Obermair è proprio la cartina di tornasole della trappola. «Quella collettiva è sempre incline all’esclusione o all’inclusione. Dentro o fuori. Invece l’identità individuale è riflessiva, porta alla libertà di coscienza, ad una forma contemporanea di vita sociale». Ecco: l’Alto Adige è proprio dentro a queste "leggi di gruppo" che spesso legano anche le parole e i comportamenti. «Portando ad una pietrificazione identitaria». A starsene in eterno dove si è, dove si è nati. Ma gli scrittori che c’entrano? «Beh, loro di solito anticipano». Vuol significare: annusano l’aria. Come Roth, Musil, anche Rilke ad avvertire che dietro i giri di valzer c’era la guerra più identitaria mai vista, con una intera generazione spazzata via sull’altare di quelle nazionali e non solo nazionaliste. Scrittori ma anche parole, quindi. Usarle è rischioso. Perchè dietro c’è sempre un substrato che ci viene dal passato, dai riti collettivi, dalle memorie e dai costumi. Un esempio lo fa Francesco Palermo: «Quando tanti politici e intellettuali presumibilmente avveduti dicono: i catalani vogliono l’indipendenza. I catalani chi? Tizio, caio? Il 40% com’è nella realtà o di meno o di più? Si usano parole collettive per definire qualcosa che invece è a forte complessità individuale». Ci vuole insomma una nuova attenzione all’uso delle parole. Come quando Salvini parla di "popolo". E dice: se la Ue ci boccia, boccia 60 milioni di italiani. Proprio 60 o qualche milione non si sente bocciato? Palermo ha svolto una relazione poco letteraria (solo in apparenza) perchè ha parlato di identità rispetto al panorama giuridico. Cogliendo la stessa schizofrenia tra aspetti collettivi e aspetti invece individuali dell’identità. «Quella individuale, quando si parla appunto di diritti personali, - dice - dalle scelte di genere o a quelle etiche, divorzio, aborto, fine vita, è libera, la legge tutela la libera scelta di ognuno. Ma quando le norme, anche costituzionali di tanti Paesi, passano al collettivo, la trappola scatta». Pensiamo agli statuti di alcuni partiti altoatesini, al pacchetto stesso o ai richiami generalisti di infinite norme nazionali. In cui il popolo, il sentire collettivo, gli usi e i costumi assumono valenze assolute. Non sindacabili. In cosa si può sperare? Magari nell’Europa. O nella medicina del plurilinguismo, nella prospettiva di un continente con confini "porosi" in cui ragionare tra persone e non solo tra popoli, maggioranze o minoranze che siano.















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