«Noi nati in Italia, tra pregiudizi e diktat familiari» 

Studio Eurac sui “seconda generazione”. Spesso le aspettative  vengono frustrate dalle discriminazioni e dalle pressioni in casa


LUCA DE MARCHI


Bolzano. Johanna Mitterhofer e Martha Jiménez-Rosano sono le autrici del progetto di ricerca «Dalla scuola al mondo del lavoro: percorsi di transizione di giovani con background migratorio», pubblicato sotto il coordinamento scientifico di Roberta Medda dall’Istituto sui diritti delle minoranze di Eurac Research. La ricerca, condotta a partire dal 2016, si concentra sulle “nuove minoranze” e in particolare sulle seconde generazioni.

Le seconde generazioni

«Le seconde generazioni sono rappresentate dai giovani nati in Italia, che hanno quindi avuto accesso alle scuole locali e non hanno problemi di lingua. Con delle interviste ci siamo interessate alle loro storie» spiegano le ricercatrici. Cinquantacinque interviste sono state rivolte a esperti del settore scolastico, sociale e lavorativo, trentuno ad adolescenti e giovani adulti, dei quali ventitré con background migratorio. «Dalla ricerca emerge che il contesto socioeconomico dal quale provengono gli alunni di cittadinanza non italiana è più debole rispetto a quello dei compagni italiani con riscontri sul rendimento scolastico. Per questo le persone con background migratorio intraprendono formazioni mirate all’inserimento professionale: perché i genitori preferiscono che i figli entrino nel mondo del lavoro e perché le scuole stesse così li orientano». Queste scelte però impediscono loro di manifestare le proprie reali competenze e capacità e sono gli stessi docenti ad ammetterlo: in un’intervista un’insegnante lamenta di come il lavoro con le famiglie potrebbe essere migliore, ma tante cose vengono fatte in modo superficiale perché «siamo tutti oberati di lavoro».

I pregiudizi resistono

Le difficoltà si ripercuotono così anche fuori dai cancelli scolastici. «Nonostante queste persone sappiano la lingua e abbiano delle qualifiche, il nome straniero, l’aspetto fisico, il colore della pelle e il modo di vestire danno vita spesso a vere e proprie discriminazioni». È ciò che emerge dalle interviste rivolte ai datori di lavoro e agli stessi cittadini. «Inoltre le famiglie con background migratorio non hanno la rete di contatti che avrebbe una famiglia italiana per aiutare nell’inserimento i propri figli, anzi, spesso ignora anche il funzionamento del mercato del lavoro e il risultato è che i figli riescono ad accedere solo a occupazioni di bassa qualifica che si scontrano spesso con le loro aspirazioni». Le pressioni più forti vengono dalla società: «Non posso cambiare il colore della pelle per fare la commessa» afferma in un’intervista una ragazza di colore, mentre un’altra ragazza racconta di come si è spostata in Inghilterra perché lì è permesso lavorare con il foulard islamico. Ma spesso la pressione è degli stessi genitori. È il caso di una ragazza italiana originaria del Marocco, che fosse stato per i suoi genitori sarebbe finita subito a lavorare come loro nel settore delle pulizie, ma che ha voluto continuare a studiare. «Quando io ho trovato lavoro, c’è stata una sorta di incredulità da parte di tutti» ha affermato durante l’intervista.

Il coraggio dei giovani

«Sono la resilienza e il coraggio di chi, con spirito di sacrificio, non sceglie di prendersela con i propri genitori, che è evidente come appartengono a contesti culturali diversi, ma accetta la sfida con se stesso» commentano le ricercatrici Mitterhofer e Jiménez. Un’altra giovane ragazza drl Marocco in un’intervista afferma Non mancano casi di “crisi d’identità”. «C’è anche chi, per metà figlio di italiani, per farsi assumere dichiara il solo cognome italiano» riportano le ricercatrici. Un venticinquenne nato in Italia e di origine senegalese, rivela invece di sentirsi italiano ma di voler rendere il proprio figlio consapevole della propria cultura e lingua di origine. Le ricercatrici lo commentano così: «Può permetterselo perché è una persona sicura della propria identità italiana e solo così può aggiungerci la sensibilità verso quella di origine senegalese».

Il mondo del lavoro

La ricerca di Eurac propone infine delle raccomandazioni e illustra alcune buone pratiche. Al lavoro nelle scuole e nell’associazionismo del sociale si affianca la necessità di educare i datori di lavoro e le associazioni di imprenditori. «Lavoreremo ancora su questa tematica. Si tratta di numeri importanti che ci impongono di pensare a lungo termine. Quello che ci preme affermare è che “l’altro” non deve essere visto come minaccia, ma come valore aggiunto, per esempio, per le competenze linguistiche e interculturali che possiede. Per farlo servono nuovi modelli di riferimento che dimostrino come le posizioni più qualificate possono essere raggiunte da tutti, qualunque sia la condizione di partenza» affermano le ricercatrici e viene da pensare a figure come a quella del sindacalista Aboubakar Soumahoro, che di recente ha pubblicato il libro “Umanità in rivolta”.















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