Assistenza

«Noi, negli ospedali per rendere il dolore meno insopportabile» 

Gli assistenti spirituali sono figure laiche assistono i malati, i loro familiari e il personale sanitario. Clara Bosio: «All’inizio molti pazienti sono scettici, ma poi si aprono. Siamo a disposizione per ascoltare tutti»


Paolo Tagliente


BOLZANO. È una persona disposta ad ascoltarci, a darci sostegno e conforto in quello che, per tutti, è un momento difficile della vita. E' qualcuno con cui confidarsi, a cui aprirsi, rendendolo partecipe delle nostre paure legate alla malattia o, nel migliore dei casi, anche delle nostre gioie per un’operazione riuscita o una guarigione.

L’assistente spirituale in ospedale è tutto questo. e molto, molto altro. Clara Bosio, 27 anni, roveretana d’origine, da quasi due anni è una degli assistenti spirituali che operano all’interno degli ospedali dell’Alto Adige. La nostra provincia fu la prima, 30 anni fa, a istituzionalizzare con legge Questa figura. in occasione della giornata mondiale del malato le abbiamo chiesto a clara bosio di raccontare il suo particolare e delicatissimo lavoro.

Chi è un assistente spirituale?

Siamo dipendenti dell’Azienda sanitaria, che offre questo servizio, ma si può dire che abbiamo anche un “piede” nella Diocesi, visto che il bando di concorso per l’assunzione viene pubblicato dall’Ufficio pastorale della Diocesi stessa. Un po’ come accade per gli insegnanti di religione, selezionati dalla Diocesi e poi assunti a scuola. Siamo laici, abbiamo studi teologici alle spalle, una formazione specifica per l’assistenza spirituale negli ospedali e il nostro compito è offrire ai pazienti, al personale e ai familiari dei pazienti un accompagnamento umano e spirituale. Possono essere colloqui, ma anche semplici chiacchierate o, a chi li desidera, anche preghiere o sacramenti, grazie ai cappellani dell’ospedale. Offriamo anche una vicinanza alle persone nella malattia, o quando ricevono una diagnosi poco felice, ai malati in fase terminale e anche ai familiari di persone decedute in ospedale. Ci occupiamo di tutta la parte umana e spirituale in ospedale, insomma.

Come ha deciso di intraprendere questa strada? Come è nata la scelta di diventare assistente spirituale?

Nel mio caso è stato quasi un caso. Ho studiato teologia all’Istituto teologico accademico di Bressanone e, durante, il percorso di studio, era previsto che facessi dei tirocini. Tra questi, c’era la possibilità di farne uno proprio presso l’ospedale di Bressanone, come assistente spirituale. La cosa mi ha molto interessata, ho deciso di provare e mi è piaciuto molto. Ho trovato molto coinvolgente e speciale la possibilità di poter aiutare le persone in momenti così “sacri”. E poi trovo molto interessanti anche gli aspetti legati alla dimensione bioetica, perché ogni giorno ci vengono poste domande di carattere etico relative alle terapie. Etica, filosofia e teologia sono materie che mi hanno sempre interessato. Terminati gli studi a Bressanone, ho trascorso un altro anno di studio in Germania e poi sono arrivata qui, in ospedale, nel marzo del 2020, quasi in concomitanza con l’arrivo della pandemia. Non ho mai conosciuto l’ospedale senza Covid.

Quanti sono in Alto Adige gli assistenti spirituali in ospedale?

In tutte le strutture della Provincia siamo oltre venti. Per quanto riguarda la gestione del servizio, ogni ospedale ha un’organizzazione diversa. Qualcuno di noi è sempre reperibile: a Bressanone siamo in tre a coprire la reperibilità diurna e sette a coprire quella notturna. Mi spiego: una notte alla settimana spetta a noi tre, dipendenti dell’Asl, e poi ci sono quattro persone che ci affiancano. Si tratta di colleghi in pensione o sacerdoti, a Bressanone sono due, ad esempio. Non sono volontari, ma hanno un contratto anche se non sono assistenti spirituali a tempo pieno.

Qual è la vostra giornata tipo?

Noi ci muoviamo di stanza in stanza, ci presentiamo, spieghiamo che ci siamo, spieghiamo cosa facciamo e offriamo il nostro supporto. Spieghiamo anche che ascoltiamo tutti, indipendentemente dalla religione, dal credo politico o dall’orientamento sessuale.

Siete quotidianamente a stretto contatto con malattia e morte. Quanto “pesa” tutto questo sulle vostre vite private?

In effetti, siamo presenti in momenti molto intimi nella vita delle persone, come può essere il processo verso la morte o anche la semplice degenza in ospedale, in cui le persone sono spesso nude e debilitate. E volte ci raccontano cose molto personali e drammatiche. Per questo, noi abbiamo una supervisione mensile e sicuramente è importante il confronto, lo scambio di consigli tra noi colleghi. Oltre a questo, è necessaria una sana distanza che si traduce nella capacità di lasciare in ospedale ciò che riguarda l’ospedale.

C’è qualche paziente che, magari in un primo momento, rifiuta il vostro aiuto?

Sì, probabilmente accade con la gran parte delle persone. C’è chi si spaventa e pensa già al peggio. C’è chi è scettico e ti guarda con sospetto. In quel caso serve tatto, per spiegare che non siamo lì per imporre nulla o fare indottrinamento, ma solo per ascoltare. Ci sono persone che ci rispondono “No, grazie. Tutto a posto”. Anche se “tutto a posto” non è. Poi, magari si inizia piano a parlare in maniera superficiale e viene a galla molto altro. Serve una sorta di sesto senso per capire se la persona che abbiamo di fronte abbia bisogno di aiuto. Noi non possiamo salvare nessuno e a volte non si può fare nulla se non essere presenti e condividere il dolore. Spesso, con una persona estranea è più facile aprirsi e raccontare cose che ai familiari non si racconterebbero. A differenza di altre figure professionali dell’ospedale, ognuno è libero di parlarci o meno. È un loro diritto, ma noi ci siamo comunque. E questa libertà, spesso permette di creare un rapporto di fiducia con noi.













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