Nostro nonno,  il capitano Merci eroe silenzioso 

Alla Biblioteca Civica. Sala piena per la presentazione del libro dedicato al bolzanino Lucillo Merci che salvò 400 ebrei di Salonicco dalla deportazione. «Da bambini non ci raccontò mai nulla, solo da adulti abbiamo scoperto il suo coraggio e cosa aveva fatto»


Paolo Campostrini


Bolzano, «Per me, per noi, era solo il nonno...». Sono tanti i nipoti di Lucillo Merci. «Siamo in 17, e del “capitano Merci” come lo si chiamava noi da piccole - racconta una di loro, Giuliana Less Nardi - sapevamo solo che era stato in Grecia, a Salonicco. E che lì aveva fatto l'ufficiale interprete. Basta». Niente del fatto che il nonno fosse un “giusto”, che rischiando la fucilazione ad ogni passo, avesse salvato dalle camere a gas centinaia di ebrei, andandoli a prendere ad uno ad uno quando già erano finiti nei lager di smistamento greci, dove i tedeschi li avevano radunati prima di farli salire sui carri bestiame. Direzione Birkenau. Niente sapevano allora del nonno che, sempre a rischio della vita, aveva fatto passare quegli ebrei greci, una comunità che viveva a Salonicco da cinque secoli, per “temporaneamente italiani”, compilando falsi documenti in base a immaginarie parentele ariane. «Non sopportavo di vederli trattati così, privati di ogni cosa, stipati nei vagoni, donne e bambini, malati e vecchi. Non voglio mollare» scriveva, ancora nel '43 , sul suo diario. Restando in ufficio fino a notte fonda, con in mano gli elenchi degli israeliti di Salonicco, traditi dal loro stesso rabbino che li aveva forniti ai tedeschi in cerca di nuove vittime per le camere a gas. Lucillo Merci, fascista. Che aveva fatto la marcia su Roma, podestà in Alto Adige, dove si era trasferito giovanissimo. Ma che, da addetto al consolato italiano di Salonicco, aveva trovato sincere collaborazioni in altri impiegati e funzionari del regime come lui, disgustati dalle violenze naziste sugli ebrei inermi. Una reazione civile. Una “resistenza” d'istinto. Fuori dalle ideologie ma tutto dentro un umanità che andava oltre le scelte politiche. Iniziata “come dovere nazionale”, provando a salvare la comunità italiana, molto fitta in Grecia anche prima dell'invasione, e i loro beni, ma che aveva finito per coinvolgere tutte le vittime della barbarie nazista e tra loro le più esposte: gli ebrei.

Il diario a Gerusalemme

al Museo della Memoria

Ecco, quel diario , quei ricordi, Lucillo Merzi li aveva tenuti per sé a lungo. Non voleva darsi troppi meriti. Era un uomo onesto e leale. Finché, un giorno, nel 2007, gli scritti finirono nelle mani della direttrice del nostro archivio storico, Carla Giacomozzi. Era l'ultima versione. Compilata da Merci nel 1983, un anno prima di morire. Oggi l'originale si trova a Gerusalemme, nel museo della memoria. Dal 2007 una fitta corrispondenza tra Bolzano e Napoli, dove da anni stava lavorando alla Shoah greca Nico Pirozzi, giornalista del Mattino, indomito ricercatore di testimonianze per provare ad aprire gli “armadi della vergogna”, contribuì finalmente a rendere pubblico l'eroismo civile di un militare bolzanino. Tanto da farne la struttura portante di un libro dello stesso Pirozzi, “Salonicco 1943, agonia e morte della Gerusalemme dei Balcani”. Perché era dal XVI secolo che le comunità ebraiche avevano lì trovato rifugio dalle persecuzioni, soprattutto spagnole. Nel censimento del 1920, risultavano presenti a Salonicco 75mila ebrei. «Ecco, in soli 157 giorni, tutti concentrati nel '43, i tedeschi fecero sparire una storia di cinque secoli». Lucillo ne salvò più di 400, ha ricordato l'altra sera lo stesso Pirozzi, in una sala della Biblioteca Civica piena come un uovo. E dove, per l'occasione, si erano ritrovati tutti i Merci. «Arriviamo in tanti da Bolzano e da Merano, ma molti anche da Milano e da Lugano» ha raccontato un nipote. Anche tra di loro, felici di riabbracciarsi, bisognava impegnarsi per ricordare il nome di tutti: Pierangela, Andrea, Francesco, Alberto, Giuliana, Raffaella, Fiorenza... Sedute in prima fila le figlie, Carla e Maria Cristina, novantenni . «Una storia di coraggio, orgoglio di questa nostra città» ha definito la vicenda di Lucillo, Juri Andriollo, assessore alla cultura. Tanto che il Comune, anche per via di una serie di mozioni depositate a suo tempo da Guido Margheri, sta pensando di dedicargli una via bolzanina. «Un impegno» ha definito l'idea lo stesso sindaco. Visto anche il contributo decisivo delle strutture municipali, dalla direttrice Giacomozzi alla dirigente di ripartizione Anna Vittorio, nel riesumare gli scritti di Merci, nel tessere relazioni con i famigliari e i ricercatori. «La memoria nasce dalla conoscenza, la quale sola genera consapevolezza» ha scandito Pirozzi. Memoria dell'Olocausto ma dunque anche di chi vi si frappose. Ancor più eroico perché avrebbe potuto, come tanti, girarsi dall'altra parte. Nessuno perseguitava Merci, ufficiale italiano occupante. Poteva continuare la sua vita. Poteva farlo a differenza dei partigiani greci, cacciati dai loro villaggi anche dalla violenza dei generali italiani, come il fucilatore Mario Robotti. Come i tanti ebrei che li raggiungevano in montagna. Loro avevano una ragione. Lui se l'è cercata, la ragione: «Ho visto quei volti, ho visto i treni piombati stipati all'inverosimile. Ho saputo dove andranno. Come si fa a non fare niente...»: ecco perché. Perché Merci era un uomo. Prima si era messo a cercare lontane parentele italiane in quegli ebrei perseguitati, poi una moglie, un nonno che avesse un'assonanza nel cognome. Poi niente, se l'inventava e basta la cittadinanza italiana. Scovando anche quella via d'uscita, tutta italicamente creativa, del “provvisoria”. Era arrivato persino ad accompagnarli di persona sulla tradotta militare che percorreva i Balcani diretta a Venezia, in salvo. Riceveva ordini direttamente anche da Roma, all'inizio, Merci. Per dire che anche tra i funzionari del fascistissimo Galeazzo Ciano, ministro degli esteri, si annidava una frangia apertamente anti tedesca. Tanto da suscitare le proteste dell'ambasciatore del Reich perché ponevano ostacoli alla soluzione finale. A Roma, quella resistenza prima dell'8 settembre era forse motivata anche da orgoglio nazionale ma laggiù a Salonicco, era vissuta da Lucillo come elemento di riscatto umano e civile. Ogni giorno rischiava la vita. Condivideva la sorte degli ultimi, fino a farne un'ossessione quotidiana, una folle corsa contro il tempo quando già gli ufficiali tedeschi, sui binari, avevano iniziato a caricare sui treni i deportati.

Merci era lì, all'alba, a sfidare i loro occhi sospettosi, a mostrare quei documenti falsi appena compilati e a portare in salvo gli ultimi "suoi" ebrei.

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