Questi nostri giovani in un paese per vecchi

Dialogo con Ilvo Diamanti, alla ricerca di una speranza di futuro: «L’Italia deve investire sui nuovi italiani»


di Paolo Mantovan


di Paolo Mantovan

I giovani in Italia sono talmente pochi che ormai sono sempre e solo gli adulti a parlare di loro. Adulti preoccupati, che scaraventano loro addosso i timori del futuro. Un problema che nasce da lontano e che già aveva visto con chiarezza padre Alex Zanotelli una ventina d’anni fa quando, tornando dalle misere baraccopoli del Kenya, sospirando ci disse: «La differenza che ho visto subito qui in Italia? Non ci sono bambini. E senza bambini non abbiamo futuro».

Ilvo Diamanti oggi conferma. Il sociologo e politologo, noto editorialista de “la Repubblica”, domani sarà a Bolzano, a parlare proprio di “giovani e partecipazione in Europa”. E dialogando con noi, qui, traccia una di quelle sue mappe che ci introducono non solo all’argomento ma anche all’Italia di oggi e agli scenari futuri a partire dalla carenza di giovani.

. Diamanti, in Italia sono sempre gli adulti che parlano di giovani...

Sì, succede soprattutto in Italia perché l’italia è più vecchia rispetto alla media europea. Noi siamo invecchiati molto, la presenza di giovani è più bassa che altrove.

Beh, come il resto della “vecchia” Europa.

No, non considero la giovane Europa, quella dell’Est. Penso invece agli altri paesi, ossia alla Germania, alla Francia, alla Spagna. E qui basta guardare la nostra classe dirigente e quella dei paesi che ho citato: siamo nettamente i più anziani.

Come è potuto accadere?

È accaduto per una serie di motivi. Perché lo sviluppo e la crescita del benessere ha avuto un picco negli anni ’80, fino a inizio anni ’90, con basso tasso di natalità, da cui è discesa una società di figli unici. Ma anche perché questo paese ha abbandonato le famiglie, l’Italia non è certo all’avanguardia per le politiche di sostegno alla famiglia.

E così le famiglie hanno sviluppato ulteriormente la loro propensione a proteggere i figli, i giovani...

Proprio così. E adesso, prendendo a prestito e modificando il titolo del film dei fratelli Coen, possiamo proprio dire che questo “è un paese per vecchi”. Un paese dove tutti, anche i vecchi, si considerano giovani. Dove i genitori, almeno in parte, impediscono ai figli di crescere.

Ora siamo nel mezzo di una crisi. Può essere il momento per il riscatto dei giovani?

Guardi, questa è la prima generazione precaria. La prima generazione destinata alla “precarietà”. Che non è l’equivalente di “flessibilità”.

Flessibilità è il contrario di rigidità, giusto?

Appunto. Avevamo una società molto rigida dalla quale dovevamo uscire con la flessibilità. Ma quella è la flessibilità che prepara a un destino comunque assicurato, un destino migliore dell’attuale. I giovani di oggi, invece, si stanno preparando (e molti ne sono consapevoli) alla precarietà che è “flessibilità senza sbocco”. È difficile avere un progetto senza la speranza di un destino migliore.

Ma non riguarda soltanto i giovanissimi. La precarietà ha già investito anche tanti quarantenni.

Sì, non è solo dei giovani. Ma per quel che riguarda i giovani li tocca proprio tutti, perché la precarietà riguarda praticamente tutte le categorie, anche la classe media, e si è allargata anche a coloro che studiano. E’ evidente che sempre più giovani cercano soluzioni all’esterno di questo paese.

È un paese per vecchi e quindi non siamo competitivi e ora i giovani migliori se ne andranno...

Non siamo competitivi, assolutamente, ed è questo uno dei motivi principali, ovviamente. Come popolo siamo vecchi per sistema sociale, siamo molto conservatori.

Al di là della politica, bisogna rottamare?

Io non sono un rottamatore. Però l’età media della classe politica è davvero alta. Il tema è davvero una questione centrale per il nostro paese.

Che cosa si può fare per ringiovanire?

Le possibilità sono due. La dinamica demografica o l’integrazione degli immigrati. Sulla prima ho qualche dubbio perché le famiglie italiane, in presenza di crisi e in assenza di politiche di sostegno, difficilmente opteranno per la natalità.

Anche se, è chiarissimo, un figlio è un investimento e quando c’è crisi lo è doppiamente.

L’integrazione degli immigrati è ben lungi dall’avvenire.

Per riuscirci bisogna esserne convinti. Da qualche anno l’immigrazione ha permesso al paese di rallentare il declino demografico. Non c’è dubbio che su questo versante però il paese deve investire per riuscire ad avere più rabbia e più determinazione.

Più fame

Sì, più fame.

Scusi se mi butto sul calcio. Ma mercoledì per l’Italia potrebbe giocare una coppia d’attacco formata da «SuperMario» Balotelli e dal «Faraone» El Shaarawy. Il calcio ha la forza di essere uno stimolo all’integrazione?

Come no? Ma guardi che di El Shaarawy e Balotelli, soprattutto Balotelli, ne trova tantissimi nelle serie minori e sempre di più nei campionati giovanili, vada nei campi di provincia e vedrà quanti ce ne sono. Quindi direi di sì, stiamo già cambiando.

L’immigrazione è un segno di sviluppo e di crescita dove i paesi sono attraenti. Noi però adesso, con questa crisi, non siamo attraenti.

Con la crisi ci sono due problemi: da un lato c’è il rischio che l’immigrazione venga percepita come un problema sul piano del lavoro. Perché negli scorsi anni abbiamo evitato ai nostri figli i lavori umili appaltandoli agli immigrati. Adesso tutti i posti di lavoro, diventando merce rara, possono essere motivo di tensione. E dall’altro lato c’è un forte calo di arrivi di immigrati, anche qualche ritorno in patria, perché i flussi migratori stanno saltando il nostro paese.

Che cosa si può fare?

Bisogna reagire alla crisi investendo. Purtroppo questo paese non ha mai investito abbastanza in ricerca e innovazione. E poi è un paese che è conservatore e vecchio ed essendo vecchio non innova, una specie di circolo vizioso.

Arriveremo a rimpiangere gli immigrati?

Arriveremo a rimpiangere l’epoca in cui arrivavano...

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