«Separare e dividere è il nostro modello»

Carlà ha messo a confronto Alto Adige e Catalogna. Impietosi i risultati: «Lì inclusione, qui la diversità è un problema»


di Paolo Campostrini


BOLZANO. «Il modello autonomista catalano punta all'inclusione dei non catalani, quello altoatesino invece, a separare e a escludere» dice Andrea Carlà, "senior researcher" dell'istituto sui diritti delle minoranze all’Eurac. Per cui attenzione, protoindipendentisti identitari della nostra destra che guardano a Barcellona come a un totem separatista. Perché se anche Bolzano dovesse uniformarsi alla "Generalitat de Catalunya", addio proporz, scuole separate, gruppi etnici ben divisi, immigrati da tenere chiusi negli ostelli, richiedenti asilo a far la fila per un letto. Queste conclusioni, Carlà non le trae nella ricerca che ha appena concluso su «I diversi approcci alla diversità e all'integrazione dei migranti in Alto Adige e in Catalogna», ma ne consolida le premesse attraverso i risultati di una lunga indagine tra gli amministratori, le organizzazioni pubbliche, i ricercatori per capire quali sono i fattori che differenziano i due approcci. Apparentemente simili per afflati indipendentisti, per la cura verso l'autonomia, l'identità e la lingua ma lontani come il giorno e la notte nella cornice che racchiude tutte queste aspirazioni di un popolo che si trova ad essere ugualmente maggioritario nel proprio territorio ma minoranza nello Stato di riferimento.

In Alto Adige molti guardano alla Catalogna come a un modello per l’autonomia...

«Il problema è che si tratta di un modello che va in direzione opposta alla nostra».

Partendo da dove?

«Dal rapporto con la diversità».

Parla dei migranti, degli stranieri?

«Anche. Ma non solo. In Catalogna il modello è l'inclusione. Qui la separazione. Laggiù si concede la "cittadinanza residenziale", chiunque abita in Catalogna ha i suoi diritti catalani. Assunzioni, case. Lo schema Achammer mi sembra diverso...».

Diceva: anche, ma non solo...

«Certo, perchè ora si parla di inclusione dei migranti. Ma lo stesso atteggiamento la Catalogna lo ha avuto anche rispetto all'emigrazione interna».

Cioè di quella spagnola, dei parlanti castigliano?

«È così. Sia loro che noi abbiamo avuto questo rapporto molto traumatico con le dittature. In Alto Adige durante e dopo il fascismo arrivarono gli italiani, a Barcellona durante il franchismo e anche dopo giunsero molti castigliani. Ebbene, nei loro confronti, subito dopo la caduta di Franco si è adottato uno schema molto meno rigido. Nessuna scuola separata tra le due nazionalità, niente leggi identitarie».

È lì che è nato il modello catalano?

«Tra gli anni 70,80 e 90 si è consolidato quello che adesso chiamiamo l'interculturalismo, questa scelta di valorizzare le differenze».

Quindi alla fine anche un diverso approccio nelle scelte politiche che hanno disegnato le due autonomie?

«Partendo dal considerare l'identità un concetto più malleabile, meno rigido, in Catalogna sono state fatte politiche linguistiche che non hanno mai tenuto conto dell'etnia delle persone. Lì , ad esempio, è assolutamente vietato distinguere alcunché in base alla lingua "madre". Niente scuole separate, proporzionali negli uffici. Castigliani e catalani si sono mischiati, pur essendoci comunque tensioni nei confronti di Madrid. Lo stesso sistema è stato poi applicato quando si è trattato di affrontare il problema dell'accoglienza degli immigrati».

Lei dice: il modello catalano è all'opposto del nostro sull'immigrazione proprio perché era già diverso rispetto ai rapporti catalani-castigliani. E dunque se invece da noi italiani e tedeschi stanno separati, "di conseguenza" teniamo esclusi anche gli stranieri?

«È un fatto che in Alto Adige si ragiona rispetto agli immigrati stranieri come a un possibile "quarto gruppo", cioè ci viene quasi naturale rinchiuderli dentro qualcosa che ribadisca la loro diversità...».

Come abbiamo fatto tra italiani e tedeschi?

«Divisi appunto in gruppi. Perchè lo schema è questo e va solo riproposto. Mentre in Catalogna il rapporto è molto più fluido. Se uno abita lì e parla la lingua non c'è legge che lo rimetta al suo posto, come si dice. Vive come un cittadino catalano».

Ma poi accade quello che è accaduto sulle Ramblas..

«Questo è un altro piano. In tema di terrorismo si parla di radicalizzazione, di islamismo come risposta alla precarietà».

Quindi l'inclusione non esclude un certo livello di ghettizzazione del diverso?

«Naturalmente no. Ma se non ci fosse sarebbe peggio. Sono dinamiche sociali che vanno oltre le leggi e i modelli. Riguardano l'economia, la distribuzione della ricchezza ».

Dunque neppure la cittadinanza è un argine contro il terrorismo. E dunque, per parlare dei nostri dibattiti, neppure lo jus soli?

«Allora, facilitare l'inclusione riduce comunque la sensazione di emarginazione. Almeno nei grandi numeri. Ma non è che essere cittadino ti rende immune dal rischio di tentazioni violente. Si tratta di processi lunghi e di argini sociali».

Quindi non c'è rapporto stretto, negativo o positivo, del tipo: più cittadinanza- più sicurezza e neppure il contrario ?

«Direi che la cittadinanza riguarda la politica, la sicurezza la polizia. Sono piani diversi. Il terrorismo va combattuto su larga scala e coi mezzi di una guerra anche se non dichiarata».

Ma l'inclusione limita il danno?

«Oggettivamente lo limita».

Faccia un esempio pratico?

«Penso alle comunità islamiche. E' chiaro che il messaggio islamista le trova più sensibili rispetto ad altre comunità straniere. Ma inclusione non significa solo far sentire i singoli meno esclusi ma consente di avere un rapporto più naturale e quotidiano con le comunità nel loro insieme. Se tanti stranieri sono nelle camere di commercio, lavorano, hanno rapporti normali con le scuole, gli uffici, sarà più semplice anche per la polizia parlare con loro, capire le loro dinamiche interne».

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