L'INTERVISTA Eli Rossi Borenstein 

Tutti dovrebbero vedere almeno una volta Auschwitz 

La presidente della Comunità ebraica. «Memoria: un conto sono gli appuntamenti istituzionali, i convegni e le conferenze, un altro vedere da vicino. Oggi mai fa paura il revisionismo e chi sdogana le dittature»


Paolo Campostrini


Bolzano. Ci ha messo 50 anni Eli Rossi Borenstein per riuscire ad entrare ad Auschwitz. Tante volte ci è andata ma sempre, un attimo prima di varcare quel cancello, si era fermata. «Mi bloccavo. Non ero più capace di camminare...».

E poi? «Poi mi è successo di andarci con i ragazzi delle scuole. Sul treno della memoria. Come sempre a un metro dall'ingresso del campo mi ha travolto l'emozione. Ferma, come sempre. Bloccata. Ma è accaduto che un paio di studenti mi abbiamo preso sotto braccio, in silenzio. E dopo qualche attimo: Venga, mi hanno sussurrato, venga con noi... Allora, solo allora sono entrata».

Ce l'ha fatta Eli, presidente della Comunità ebraica meranese. Che è la più numerosa della regione. Nonostante che, prima del '43, fosse numerosissima. Ma da quei treni, non della memoria, ma dell'orrore nazista, non è più tornato quasi nessuno. Né grandi né piccoli, come Olimpia Carpi a Bolzano, inghiottita da Auschwitz a 4 anni.

Che pensa, signora, della Giornata?

Che mi è sembrata più intensa del solito questa volta.

Si è data una ragione?

Immagino che sia l'effetto Segre. Un'ebrea in Senato. E poi una donna come lei. Ha scosso le coscienze, ha reso viva la memoria. Lei, sopravvissuta...

Ha avvertito più partecipazione?

Beh, sì. Sarà che quest'anno, anche qui da noi, non è stata programmata una sola giornata ma incontri ed eventi sono stati spalmati lungo un intero mese. Mi pare che non sia scontato tutto questo. E poi...

E poi?

Beh, vorrei ricordare che si tratta di una ricorrenza voluta dallo Stato. Non dalle comunità ebraiche. Dunque dalla nazione, dagli italiani. E questo offre un'idea di partecipazione che non si limita a noi ebrei soltanto.

A questo proposito, Alessandro Tamburini, sull'Alto Adige, ha scritto ieri come esista il rischio che la Giornata, in quanto istituzionalizzata, "diventi rituale". Condivide questa preoccupazione?

Rischi di questo genere li corre ogni ricorrenza. Dalle feste nazionali a quelle religiose. Ma sono d'accordo con lui quando dice che, un conto è vivere la Giornata tra appuntamenti istituzionali e convegni, un altro vedere. Ecco, come le dicevo, io ci ho messo 50 anni per vedere. Mi bloccavo davanti al campo. Oggi, nei lager, non è possibile udire le urla dei prigionieri, non si sentono le puzze orribili dentro le baracche... Come forse io continuavo ad avvertire dentro di me.

Ma?

Ma ho visto persone stare male davanti alle fedi nuziali strappate dalle dita degli ebrei o alle migliaia di scarpe accumulate. Certo, andarci è un'altra cosa. E tutti dovrebbero provarci.

Dunque non corre eccessivi rischi di essere vista come solo formale la Giornata?

Se permette ne corre anche altri.

Ad esempio?

Di essere banalizzata. La Giornata è stata istituita per la Shoah. Ma continuamente, nei commenti, nelle dichiarazioni, sento che si prova ad appiattirla su altri eventi della storia e della cronaca. Quante volte ho letto e sentito usare la parola Shoah o Olocausto rispetto a fatti, pur drammatici e tragici dei nostri anni, ma che nulla c'entrano.

Una banalizzazione?

E certo. Il tema della Shoah è la sua unicità. Anche in tante altre situazioni si è ucciso, si è massacrato, si continua a deridere i diversi, a eliminarli. A perseguitare i popoli della terra in tanti luoghi. Ma la pianificazione scientifica con la quale si è provato a sterminare un'intera razza umana , giungendo ad eliminarne sei milioni, è unica. E speriamo irripetibile. Gli ebrei non facevano la guerra a nessuno. Erano lì che vivevano in pace e d'improvviso si è deciso che non dovevano più vivere. Nessuno. Mai più. E si è messa in piedi una macchina logistica tesa alla loro eliminazione fisica. Ecco questa è la Shoah e il rischio che corre anche la Giornata.

Cosa le fa paura oggi?

Il revisionismo. Perché dopo la banalizzazione della Shoah c'è ora un tentativo di sdoganare le dittature che l'hanno attuata e provocata. E' un brutto clima questo. E la signora Segre lo ha provato sulla sua pelle.

Un ebreo come vive tutto questo?

Male. C'è sempre un retropensiero. Leggo i social o certi giornali e mi vengono i brividi. Ho come la sensazione che per molte persone, ancora oggi, piacciano soltanto gli ebrei morti. Quelli finiti nei lager. Mentre piacciono meno, ancora oggi, quelli vivi. E mi riferisco ad Israele e a tutto quello che si dice sulla sua esperienza come patria degli ebrei scampati dall'Olocausto. Meglio non ci pensi...













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