L’analisi

Il multilinguismo architettonico è il fattore identitario della scuola altoatesina

La particolarità del territorio diviene caratteristica peculiare, come ben mostra la “Fondazione architettura Alto Adige” che ha organizzato il decimo premio di architettura Alto Adige


Paolo Campostrini


BOLZANO. Qui non c'è una scuola di architettura. Ma è nata una scuola altoatesina, intesa come filo riconoscibile che crea una identità. La ragione? Potrebbe essere il suo multilinguismo progettuale. Senza un'università nel territorio, si va verso altri atenei ma poi si ritorna e si mettono insieme le esperienze. Uno pensa: ma entreranno in conflitto. Invece no.

E allora si dovrebbe aggiungere un'altra possibile ragione: il paesaggio. Da qui non si scappa. Le Corbusier guardava le Dolomiti, faceva un passo indietro e si rifiutava di costruirci qualcosa in mezzo. Diceva: «Questa è già l'architettura più bella del mondo».

Il contesto è dunque così troneggiante, anche lontano dai picchi e delle rocce che non sembra possibile non restarne comunque condizionati. In questo caso non per non farci nulla di costruito, perché, alla fine, occorre pur viverci qui, ma per assorbirne la spazialità. E a questo punto arriva un altro possibile elemento per spiegare perché in questi luoghi sono nate intere generazioni di architetti capaci di imporsi all'attenzione anche delle scuole più autorevoli per la singolarità del loro approccio. Che è questo: essendo già questa terra abbastanza architettonica di suo, ecco che se si pensa di farci qualcosa in mezzo, l'ultima cosa che viene in mente è aumentare l'impatto del costruito. Si è invece indotti a fare il minimo. “Less is more”. E quel minimo può diventare così la chiave dell'eleganza e pure dell'inventiva. Una sorta di pulizia interiore al progetto che trae origini dalla spettacolare pulizia del contesto.

Nasce quindi da questi tre elementi la forza di una scuola. E spiega come mai, ad un concorso di architettura si siano presentati 130 progetti provenienti da bel 65 studi. A guardare le proporzioni tra popolazione, superficie e tutto il resto forse, come lo definisce Alberto Winterle, che guida la Fondazione architettura Alto Adige, si tratta di un "record nazionale", se non europeo. Ed è stata proprio la Fondazione a organizzare il decimo premio architettura Alto Adige, giunto alla sua decima edizione. Il quale, mettendo insieme tutti i partecipanti e gli otto vincitori in altrettante categorie, offre il senso di una effettiva maturazione degli stessi linguaggi contemporanei del costruire in questi decenni.

La giuria non era composta, come accade quasi sempre nella vita lavorativa degli studi, da commissari pubblici o da funzionari del paesaggio con specifiche complesse da rispettare, ma da tre architetti: Sandra Bartoli, Peter Riepl e Clemens Waldhart. I quali hanno subito colto l'elemento fondante della "scuola" sudtirolese, quello che tiene insieme tutto: il paesaggio, appunto. Come se, hanno poi scritto, «il compito di formazione, non essendoci una università di architettura territoriale, sia invece svolto da questa realtà pervasiva».

E poi che le diverse provenienze dei progettisti, che hanno a loro volta studiato in vari atenei, italiani, austriaci o tedeschi, portino poi a casa, nel mondo del loro lavoro, questo "multilinguismo architettonico". Capace di rendere flessibili gli approcci e di parlare un linguaggio men che meno provinciale. Certo, non ci sono grandi dibattiti sulla questione. I Comuni, la Provincia non sembra siano quasi mai disposti ad avviare concorsi di progettazione e le comunità, tranne qualche eccezioni, non siano spinte a confrontarsi sulle scelte urbanistiche o nello specifico architettoniche.

Tante volte i progettisti sono lasciati soli, altre sono condotti verso soluzioni spurie come spesso accade nel confronto col pubblico. Ma nonostante questo, la scuola è viva, vivissima. E il premio ha deciso, proprio in questa luce, di non dare un riconoscimento assoluto ma di dividere i possibili premiati per sezioni, dal turismo e lavoro al pubblico, dalla riqualificazione dell'esistente all'architettura giovane, fino alle residenze e agli spazi aperti, paesaggio e infrastrutture.

Sono così emersi i lavori nel confronto con l'edilizia pubblica dello stadio del ghiaccio di Brunico e della palazzina di servizio del centro sportivo Toggenburg. Risolti come snodi di comunicazione e di incontro. Anche la scuola di musica di Bressanone rientra in questa visione di una urbanistica in movimento: «Ed è stupefacente - hanno scritto i giurati - quanto questa città sia riuscita a fare» coniugando tanti interventi con una visione architettonica globale. "Niente teatrini artificiosi" inoltre, quando si tratta, anche nel turismo, di confrontarsi col paesaggio: dal Winzerhohe di Scena all'hotel Salus di San Genesio, esempi di "sviluppo turistico orientato al futuro".

E ancora, negli spazi aperti il "Kiosk" di Merano e l'ingegnoso tunnel nel comprensorio sciistico dell'Alpe di Siusi. Per la riqualificazione dell'esistente gli interventi nella cappella del Noi e in altre residenze storiche si sono mosse, come è giusto, nel rispetto dell'esistente e delle citazioni preesistenti ma mai rinunciando a immettervi frammenti di presente se non di futuro. Con la stessa leggerezza e non invasività che pretenderebbe il paesaggio non costruito.

Tra i giovani, premiata la Alte Schlosserei in val Pusteria e lo spazio di degustazione nell'azienda vinicola Unterganzner . Tuttavia, proprio tra i giovani, scrivono i giurati " manca lo spirito dei progetti insoliti e innovativi che affrontino in modo radicale temi attuali come la sostenibilità, l'economia circolare e così via...". Che sia un primo sintomo di una possibile stanchezza dopo generazioni in costante ricerca di futuro? Aspettiamo.













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