Laives

I baristi: «Un incubo senza fine, ma cerchiamo di stare a galla» 

Rojas: «Ho 9 dipendenti e terrò aperto per garantire soprattutto i loro posti di lavoro». Gigliotti: «Da come ci trattano sembriamo noi gli untori del Covid». Raso: «Era meglio chiudere tutto per 20 giorni»


Bruno Canali


LAIVES. Un incubo senza fine: questo sono e rappresentano le continue aperture e chiusure di attività per baristi e ristoratori che si preparano a un nuovo lockdown di due settimane. Ormai serpeggia la rassegnazione al peggio, anche se non si comprende perché sia sempre la categoria dei pubblici esercenti a dover pagare il prezzo più alto.

Dalla prossima settimana, in pochi riprenderanno con il servizio di asporto e - qualche ristoratore - anche di consegna a domicilio, nella consapevolezza, maturata durante le chiusure forzate trascorse, che con questo servizio a fatica si riesce a pagare almeno le spese vive. Ma quantomeno si può - lavorando - stare a galla per cercare di intravedere la luce in fondo al tunnel.

Riprenderà l’asporto ad esempio presso il “Nuovo bar campo”, al confine fra Laives e Bolzano.

«Sta diventando una barzelletta - afferma Luca Gigliotti, uno dei tre soci che gestiscono il locale – una situazione ridicola e incoerente e spiego subito perché. Se l’idea è quella di chiudere per aiutare a salvaguardare la salute pubblica siamo d’accordo, ma allora non si capisce perché invece, nei centri commerciali e nei negozi continuino gli affollamenti. Ci sentiamo trattati come fossimo noi gli untori del Covid, nonostante dalla scorsa primavera tutti abbiamo adottato le misure precauzionali indicate dalle normative.

È anche una situazione pesante dal punto di vista psicologico, con i ristori che sono inconsistenti rispetto alle reali spese che rimangono comunque. Perché facciamo il servizio di asporto? Per garantire il minimo ai nostri clienti e per non dover nuovamente buttare i prodotti che abbiamo acquistato alla riapertura. Cerchiamo di sopravvivere insomma, nonostante ci facciano sentire quasi dei delinquenti solo perché chiediamo di poter lavorare».

«Ristori? – si chiede Carlos Rojas, del ristorante-pizzeria “Da Carlos”, alla periferia sud di Laives – .Pochi o niente. Io ho 9 dipendenti e se tengo aperto è per garantire anche il loro lavoro. Anch’io mi chiedo perché sempre la nostra categoria, come se fossimo noi la causa di tutti i guai. Invece nessuno di noi è risultato positivo, mentre vediamo centri commerciali pieni, autobus affollati, negozi presi d’assalto per gli sconti e in tutto questo, chi viene castigato? Noi. Fin che posiamo resistiamo e poi vedremo se continuare».

Giuliano Raso aveva aperto il bar “Defranceschi” in via Kennedy a Laives a fine febbraio 2020: «e dopo 15 giorni ho dovuto chiudere una prima volta» ricorda. Ormai sono rassegnato ma di certo non è così che risolveranno la pandemia. Ritengo che sarebbe stato meglio chiudere tutto per 20 giorni subito all’inizio, non solo i bar ma proprio tutto se si voleva fermate il virus. Oggi, con queste chiusure a singhiozzo e solo per alcune categorie non risolveranno niente. Non parliamo dei ristori, che sono “briciole”, quando arrivano. Ho dovuto mettere in cassa integrazione la dipendente, avvisandola che alla riapertura, con ogni probabilità dovrò licenziarla purtroppo e per fortuna che non pago un affitto del locale».

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