«Gli omicidi, la paura: così raccontammo i giorni del serial killer» 

La storia. Dario Boninsegna, all’epoca cronista dell’Alto Adige, ricorda le settimane di terrore



Merano. Dopo il tramonto, la città deserta. Venticinque anni fa come adesso. Ma se oggi a tenere in casa la gente è il lockdown, nel febbraio 1996 era un’altra paura: il serial killer. Il “Mostro di Merano”. «Con il buio, le strade si svuotavano. Da quel punto di vista c’è qualche analogia con l’attualità...».

Quei giorni lì Dario “Pippo” Boninsegna li ricorda bene. L’8 febbraio Ferdinand Gamper freddò due persone sul Lungopassirio. L’incubo sarebbe durato quasi un mese, la conta delle vittime sarebbe salita a sei prima che Gamper si suicidasse durante l’assedio al suo maso Rifiano. Boninsegna seguì la vicenda dalla prima linea giornalistica, cronista meranese dell’Alto Adige. «Ancor più che in altre circostanze del mestiere, in quelle settimane non si avevano orari. Rimane forte il senso di angoscia che provava la mia famiglia. Quando, dopo il secondo episodio, emerse l’odio dell’omicida nei confronti degli italiani, anche come redazione ci sentimmo obiettivo sensibile».

Le prime vittime.

«La chiamata arrivò verso le 20. Ero appena rincasato. Due persone morte sulla passeggiata d’Inverno davanti Villa Fany». Boninsegna torna con la memoria al’8/2/2016. «È un ricordo vivido, profondo. Corsi sul posto. All’istante, ancora all’oscuro dell’identità delle vittime, pensai a un regolamento di conti nel giro dei tossicodipendenti. La zona era frequentata da spacciatori e consumatori di droga». Erano invece un funzionario di banca tedesco e una donna marchigiana. Un giallo, la prima tinta della tragedia.

Le indagini.

Si fece strada la pista del delitto sentimentale. «Ma nella sua gravità ed efferatezza si pareva riassumersi in un fatto a sé stante» racconta Boninsegna. Il terrore esplose quando l’arma che sei giorni dopo uccise Umberto Marchioro si rivelò la stessa. «La svolta nelle indagini e uno dei momenti più forti dal punto di vista emotivo fu l’assassinio di Paolo Vecchiolini, in piazza Duomo. Vedo ancora i fari degli elicotteri che illuminavano a giorno la Tappeiner a caccia del fuggitivo, che riuscì a farla franca anche in quell’occasione. Mi riapparivano gli anni Sessanta, quando i militari puntavano i riflettori verso le montagne in cerca dei terroristi».

Davanti alla redazione sulla passeggiata dove ci troviamo ancora oggi, si consumava una quotidiana processione di meranesi «che chiedevano ad ogni ora aggiornamenti. Nel frattempo ospitavamo gli inviati di varie testate nazionali, che scrivevano alle nostre scrivanie e dettavano i pezzi per telefono. Eravamo sulle pagine di tutti i giornali».

La resa dei conti.

«In pratica, vivevamo fra piazza del Grano davanti al commissariato di polizia e la redazione». Poi, il 1° marzo: «Tante, troppe sirene: d’istinto saltai in macchina e assieme a Pablo Acero, il nostro fotografo, mi accodai alle pattuglie che salivano verso la Passiria. Riuscii ad arrivare nelle vicinanze della scena mischiandomi fra loro, prima di essere fermato da un poliziotto. Si sentivano in modo nitido gli spari». Era la resa dei conti.

La chiamata alla redazione.

Pippo Boninsegna era a un centinaio di metri dal maso dove si consumò il tragico epilogo della vicenda. Doveva avvisare il giornale di quanto stava accadendo. «Non è come oggi che abbiamo tutti in tasca lo smartphone. Mi prestò il cellulare un collega. Chiamai».

L’ultima pallottola, Gamper la rivolse contro di sé. L’incubo era finito. SIM

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