La storia

Francesca, la guerriera che ha vinto la battaglia contro il tumore al seno 

Dalla diagnosi alla chemioterapia e all’operazione, in una centrifuga di emozioni: «Guarita a 40 anni, ho cambiato prospettiva. Adesso non voglio perdere nessun momento»


Jimmy Milanese


MERANO. «Che la battaglia abbia inizio!». È con questo urlo che per Francesca Ferragina, pedagogista e mediatrice familiare, una passione per la scrittura, un podcast che parla delle donne nella storia e un blog che dà voce a chi fa fatica ad averla, è iniziata la battaglia contro un tumore al seno particolarmente aggressivo, tanto da costringerla a una mastectomia totale bilaterale.

Ci racconta quando tutto ha avuto inizio?

A fine settembre del 2018. Facevo regolarmente dei controlli perché da parte di mia nonna c'era familiarità con il tumore al seno. Avevo 36 anni e i controlli li facevo per togliermi ogni dubbio. Quel giorno, dall'ecografia sono uscita con uno stato d'animo diverso.

Cosa ha scoperto?

Avevo fatto l'ultimo controllo a maggio, ma nel giro di sei mesi era spuntato un tumore di 2,8 centimetri al seno sinistro: carcinoma triplo negativo. Una forma aggressiva che vista la mia giovane età avrebbe proceduto velocemente. La paura era che potesse essere arrivato ai linfonodi, in quanto alcuni di questi si erano attivati.

Come ha vissuto quei momenti drammatici?

Due settimane di ansia, nel frattempo avevamo iniziato a preparare la terapia perché bisognava cercare di rallentarlo il più possibile. Sono andata a Milano all'Istituto Europeo di Oncologia fondato dal dottor Veronesi, consigliata da Eva Maria Haspinger, oncologa dell'ospedale di Merano che aveva fatto un tirocinio all'Ieo.

Una lotta contro il tempo?

E purtroppo non si riusciva a prenotare una scintigrafia: esame che ti controlla il sistema linfatico. Il macchinario si trova solo a Bolzano e per fortuna alla fine siamo riusciti a trovare un posto libero. Il risultato è arrivato poco dopo avere iniziato il primo ciclo di chemioterapia. Un sospiro di sollievo lo ho tirato quando, non riuscendo subito ad effettuare la scintigrafia, dalla Tac e dalla risonanza magnetica si vedeva che la reazione dei linfonodi non era legata al tumore nel sistema linfatico.

Qual era il suo stato d’animo?

Ansia più totale, non solo per la gravità di quello che avevo, ma anche per lo stato di incertezza. Non dormivo la notte, chiusa in salotto piangevo. Guardavo le foto di mio figlio e chiedevo non so bene a chi di darmi la forza. Alla fine è arrivato il risultato della Pet che confermava i risultati precedenti. Sa che mi sono detta?

Ci spieghi.

Che la battaglia abbia inizio! In quei momenti, un mio amico mi costruì una replica di uno scudo degli Highlander scozzesi utilizzato nella battaglia di Culladen del 1746. La loro tradizione prevedeva di mettere lo scalpo del nemico nello scudo stesso. Al posto dello scalpo ci ho messo l'esito della mia malattia.

Parlava di una visita all'Istituto Europeo di Oncologia.

Allo Ieo ho conosciuto il dottor Fabio Bassi, una persona competente che prende a cuore ogni suo paziente. Fondamentale per me, perché dal primo momento mi sono messa una corazza il più possente possibile al fine di non far pesare la cosa sulla mia famiglia. Mio figlio aveva otto anni, mio marito e i miei genitori ovviamente erano tutti terrorizzati. Mi sono imposta di mostrarmi sempre forte davanti a loro, ma dall'altra avevo bisogno di qualcuno che mi supportasse, quando loro non c'erano. Da Merano a Milano, tutti negli ospedali sono stati meravigliosi. Il Day hospital del Tappeiner ha una équipe splendida.

Cosa le ha detto il dottor Bassi?

Avevo le analisi di Merano, mi ha fatto una visita e stando ai dati che avevamo, ha confermato la procedura che voleva avviare la dottoressa Haspinger: sia la terapia sia l'intervento chirurgico.

Che tipo di intervento?

Ci sono due modi di procedere: chirurgicamente per poi passare alla chemio, oppure viceversa. Dipende da tanti fattori. Nel mio caso i medici hanno concordato di iniziare immediatamente con la chemio. Essendo così aggressivo, era meglio debilitare il tumore chimicamente, poi eliminare chirurgicamente ciò che rimaneva.

Cosa significa sottoporsi alla chemioterapia a 36 anni?

Più giovane sei e più questa fa effetto. Ho iniziato il 10 ottobre e già il 6 dicembre le analisi avevano evidenziato la riduzione di più del 50% del tumore. Per cinque mesi, fino al 20 febbraio 2019 ho fatto chemio. Poi sono tornata a Milano e visto che aveva funzionato è stato pianificato l'intervento. Sulla chemio, mi lasci dire qualcosa. Ho fatto due tipi di infusione. Quattro infusioni rosse, le più forti, quelle che servono a neutralizzare il tumore, ma ti fanno perdere i capelli, ti danno forte senso di nausea e ti gonfiano come un pallone. Sono le più aggressive, per il tumore e per tutto l'organismo. Sono quelle che odi e ami allo stesso momento. Finite quelle a dicembre, il tumore era diminuito tantissimo. Ho proseguito con altre dodici infusioni. Anche queste debilitano. Ero sempre stanca e sentivo male a tutte le articolazioni, ma non ho mai smesso di andare in palestra con mio marito: lui faceva il suo allenamento, io esercizi più blandi per buttare fuori tutta questa schifezza.

Fino al giorno dell'appuntamento per l'operazione, che è stato?

Il 21 marzo 2019 alle 7 del mattino sono entrata allo Ieo. In sala operatoria ci sono andata a piedi e l'ultima persona che ho salutato è stato mio marito. Un saluto, e quando si sono chiuse le porte sono crollata, anche se avevo riso fino a un secondo prima. L'ansia mi è salita, avevo mandato un messaggio a tutti gli amici. A quel punto, è intervenuta una volontaria in pre-sala. Allo Ieo ci sono una serie di volontarie che fanno compagnia alle persone che si devono operare. Nella giornata delle mastectomie di solito sono persone passate per quel calvario. Ho trovato una persona favolosa: non dimenticherò mai i suoi occhi.

Come è andata l'operazione?

Mi sono addormentata con l'infermiera che mi diceva di pensare a un posto felice, un infermiere che proponeva le Maldive e io che ribattevo per la Scozia, poi mi sono addormentata. Sette ore e mezza di operazione, terminata la quale, quella volontaria era lì con me. Me lo aveva promesso prima che entrassi in sala. Al risveglio ho sentito la voce del dottor Bassi, e poi quella della dottoressa Alessandra Gottardi, la chirurga plastica che si è occupata della ricostruzione.

Che tipo di ricostruzione?

Prima di entrare in sala operatoria mi avevano spiegato che non sapevano se mi avrebbero messo subito le protesi definitive o le espansioni, ovvero delle protesi sgonfie con placca di metallo che col tempo permette il riempimento. Avevano tolto più di quello che era previsto ed effettuato una mastectomia totale bilaterale. Per fortuna, direi, infatti il seno destro aveva un principio. Il tumore in qualche mese sarebbe arrivato anche al seno destro.

Come ricorda il risveglio?

In stanza c'erano mia mamma e mio marito. Mia mamma, infermiera, aveva capito che non mi avevano messo le protesi definitive. Avrei dovuto tenerle solo per un anno e ogni cinque settimane andare a Milano per riempirle. In marzo 2020 le avrei sostituite con protesi definitive, ma è arrivato il Covid e hanno posticipato l'operazione a settembre.

Questa esperienza cosa lascia?

Cambi prospettiva. Le priorità diventano altre rispetto a quelle che una donna di 36 anni può avere. Non dico che vivi il momento, magari però non lo perdi. Vivi a un quarto di miglio alla volta, diceva Vin Diesel nel film Fast and Furious. Invece, io dico una visita alla volta, ogni tre mesi.

E il dopo operazione?

Mi sono sentita abbandonata. Ti tolgono alcune agevolazioni, ad esempio la 104 dal lavoro, ma tu sei ancora in quel vortice emotivo e di sofferenza post-chemio e devo dire che sì, di fronte alla cecità della burocrazia, a quel punto è arrivato il crollo psicologico vero. Paradossalmente, quando tutto era quasi finito.

In un suo videomessaggio lei si dichiara privilegiata, di fronte a tante come lei che non ce l'hanno fatta, e parla dei segni fisici ed emotivi della battaglia.

Sono una sopravvissuta che porta il peso di chi non ce l'ha fatta. Sì, una privilegiata. I segni della battaglia sono in quello che ti lascia la chemio: la fatica, i dolori alle articolazioni che scricchiolano. Non si parla abbastanza di questo aspetto. Invece, sono orgogliosa delle mie cicatrici. Quest'anno compirò 40 anni, mi sono ammalata quando ne avevo 36. Su quei segni mi farò un tatuaggio: una fenice che con le ali avvolge i miei seni. Quelle cicatrici sono lo scalpo della mia battaglia.













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