In Alta Venosta alla ricerca degli italiani scomparsi

Tra Curon e Malles. Viaggio tra chi è arrivato nel dopoguerra per lavoro o per amore, sognando la fuga verso i centri maggiori  Il terrorismo e le scuole chiuse all’ombra del campanile nel lago Oggi il turismo ignaro e una serie Netflix ambientata nella zona


Sara Martinello


Curon/malles. «A quel tempo mio marito insegnava a Glorenza, quindi per comodità avevamo iscritto alla scuola materna del paese nostro figlio Roberto. Mentre percorrevano i tornanti verso il sacrario militare di San Valentino un giorno videro un nugolo di uccelli attorno a quello che sembrava un pezzo di carne. Solo più tardi venimmo a sapere che era un brandello del corpo di un terrorista. La bomba gli era esplosa nella valigia».

Guadagnarsi la fuga.

Dora Rinaldi oggi vive a Merano, confortata dalla compagnia del marito Rolando e di una badante arrivata dall’Est. Anche i Rinaldi si mossero per raggiungere presto una solidità economica, negli anni Sessanta gli insegnanti e i militari che accettavano il trasferimento nei paesi più remoti dell’Alto Adige erano pagati bene. «Ma i bombaroli irredentisti c’erano, il maestro Michl ci disse di chiudere le tendine quando eravamo in casa».

Nata in Piemonte nel 1935, a 25 anni Dora Rinaldi raggiunge il suo novello sposo a Curon, dove lui, nato in Valsugana, insegna il tedesco ai bambini italiani, i tre figli dei Fusi: «D’inverno attraversavano il lago a piedi». Il lago è quello artificiale di Resia, la grande opera che portò a Curon migliaia di quegli italiani di cui oggi non resta che un pugno di altoatesini. In Alta Venosta la maestra Dora ci è arrivata per restare. Se non per sempre, almeno per qualche anno, il tempo di guadagnarsi la fuga verso una comunità più “italiana”, come ancora si dice in Alto Adige.

Il lago e la ferita.

Sulla corriera per la Svizzera una turista chiede al conducente che cosa ci si possa fare, al lago di Resia. «Niente, scappano tutti, fa troppo freddo. Si scende dall’autobus, si fa la foto e si torna indietro». Sulla storia del bacino Netflix produrrà nei prossimi mesi una serie, sovvenzionata da Idm, il braccio del marketing della Provincia. Il gemello spettrale di Braies, acqua sotto un ghiacciaio livido contro lo smeraldo incastonato tra le foreste, dietro i pini abbattuti nudi a terra dalla tempesta Vaia.

Sulla riva il Comune ha fatto installare un plastico per mostrare ciò che nell’estate del 1950 fu inghiottito dal lago artificiale portato a termine dal consorzio Montecatini. “Gli abitanti furono costretti a lasciare le loro case - si legge sulle targhe esplicative - senza tuttavia ricevere dal governo alcuna indennità. Il Sudtirolo subì una perdita immane: fin dal 1923 le comunità locali non potevano eleggere loro rappresentanti, e così fu fino al 1952, fatto che per l’intero periodo privò la popolazione del sostegno necessario. Gli abitanti furono costretti a emigrare o a trasferirsi in alcune baracche”. Il 70 per cento optò per l’emigrazione. Furono 181 le famiglie colpite, 514 gli ettari di terreno coltivato sommersi dall’acqua. Settemila gli operai e i tecnici che lavorarono alla costruzione della diga fra il 1946 e il 1949. Italiani, tutti, a tenere aperta la ferita della sostituzione etnica. E di nuovo la diaspora, le opzioni. Il lago che resta a colmare con quest’acqua di ghiacciaio una lacerazione antica.

Dove sono finiti tutti?

Secondo il censimento 2011, a Curon solo il 2,66 per cento della popolazione ha dichiarato di appartenere al gruppo linguistico italiano. A Malles si arriva al 3 per cento, a Bolzano ogni cento abitanti 76 sono di lingua italiana. Di quei settemila della diga se ne andarono quasi tutti, una volta finita l’opera. I pochissimi che rimasero lo fecero per mandare avanti la produzione di energia idroelettrica.

Alcuni si sposarono con donne del posto. «Mi arruolai a 19 anni, nel ‘71. Partito da Catanzaro avevo frequentato la scuola alpina delle Fiamme gialle a Predazzo, da dove in quanto sciatore e rocciatore mi destinarono a passo Resia». Bruno Pileggi, collaboratore dell’Alto Adige, è uno dei 150 abitanti di lingua italiana di Malles. Prima di potersi trasferire in un’altra regione sarebbe dovuto rimanere per almeno quindici anni in Trentino-Alto Adige. È rimasto molto di più, per amore di Maria Noggler. «I nostri figli – racconta – hanno frequentato la scuola tedesca, che disponeva di pulmino e palestre. Gli insegnanti di italiano c’erano un anno sì e l’altro no, non resistevano a lungo. Per fare lezione a due bambini al maso Rungg arrivavano con l’automobile fin dove la strada lo permetteva, poi, a piedi, dovevano risalire il canalone e attraversare un torrente. La scuola italiana fu chiusa nel ‘78».

Negli anni Settanta, in Alta Venosta c’erano ferrovieri, tecnici, membri delle forze dell’ordine. Al bar di Malles la sera era una festa che sapeva di Adriano Celentano e Iva Zanicchi. «Si cercava di tenersi uniti. Perché in altri spazi ti chiamavano Welsch, la parola spregiativa per noi stranieri. Ma in questa distanza che mettevano fra noi e loro, noi ci siamo ritagliati un angolo». È l’angolo di chi gode di una posizione sociale cui talvolta va dato un tributo, che si tratti del figlio Tonino abilissimo calciatore o del maresciallo Pileggi poi divenuto comandante della brigata.

Alla ricerca di un collante.

Il sole sta per calare dietro le Alpi della val Müstair, il freddo comincia a mordere. Nella bacheca della biblioteca i manifesti della banda, dell’associazione degli artigiani, degli Schützen: “Perché gli Schützen in Sudtirolo servono” è il titolo di un lungo proclama che cita la scuola, la sanità e la toponomastica quali campi di una battaglia mai finita.

Pileggi fa parte dell’associazione culturale Val Venosta, un piccolo manipolo di amici spinti dalla ricerca del legante della cultura. Ogni anno si abbonano alla stagione del Teatro Stabile di Bolzano, la sera si scende lungo la statale fino a Merano o anche fino al capoluogo per un’opera di Goldoni o di Paolini. Tornano le parole con cui l’anno scorso l’ex assessore provinciale Christian Tommasini ha presentato la stagione: portare la cultura in lingua italiana anche là dove solitamente l’italiano non arriva. Qui sono i sudtirolesi di lingua italiana a portarsi dove la cultura italiana si trova, nel solco dei tre gradi pilastri dati alla comunità italofona nel secondo dopoguerra: il giornale, il teatro, la parrocchia.

«Pian piano da qui se ne sono andati quasi tutti. Tornano in estate, gli italiani, i turisti che vogliono vedere gli Schuhplatter. Se il direttore della banda dice appena un “buongiorno” o un “grazie” è solo folklore. Al turista interessa di più quando qualche politico grida allo scandalo se sull’indicazione di un sentiero manca la scritta bilingue».













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