Il cuore di tenebra dei legionari 

La guerra dimenticata. Luca Fregona torna con un nuovo libro, “Laggiù dove si muore”, sui giovani italiani che hanno combattuto in Vietnam con la Legione straniera. Sette storie, 150 foto, l’odissea di una generazione perduta. Presentazione giovedì alle 18 al Museo Civico di Bolzano


Paolo Campostrini


Bolzano. Il cuore di tenebra degli italiani nasce dall’idea di nascondersi dentro un’altra vita. Scappare da quella che c’è, in un dopoguerra di pane duro e e di ferite ancora aperte, e bussare alla porta di una possibile. Per Alfredo Decarli, 18 anni, è la paga per cinque anni di leva nella Legione, che sarebbero bastati per finalmente affittarsi una casa e sposare la ragazza che ama. Aveva bussato alla casa dei suoi di lei, in centro a Bolzano, e si era sentito rispondere che no, aspettasse di non essere così povero in canna e poi se ne poteva riparlare di quel matrimonio. Morirà a Dien Bien Phu, l’ultima ridotta coloniale di una Francia allo sbando e senza più sogni imperiali. Si era offerto volontario e fatto paracadutare nella bolgia degli scontri con le truppe di Ho chi Minh senza un giorno di istituzione al lancio.

Era il giorno di Pasqua del 1954. Il cuore di tenebra degli italiani è il Vietnam prima del Vietnam, la guerra dimenticata della Legione straniera prima di quella degli americani. Il pozzo nero della memoria in cui sono finiti, morti, tante volte senza un nome ne una tomba, 525 italiani in fuga da una vita a cui non riuscivano più a dare un senso. Ma tanti furono anche i dispersi, tra nomi falsi per scappare dalla giustizia o per non più sopportare il proprio, di cognome. Chissà chi li starà piangendo.

Decarli aveva incontrato un reclutatore clandestino, in quel 1953. Che girava l’Alto Adige e tante altre terre di confine alla ricerca di anime inquiete o perdute. O con il desiderio di perdersi. Gente che aveva fame, isole nella corrente dopo una guerra finita male, fascisti con la paura di essere riconosciuti, partigiani senza un futuro da intravvedere dopo gli anni delle battaglie sulle montagne, avventurieri affascinati dal mondo al di là del mare, in Africa, in Indocina, molto più abbagliante di quello delle proprie città ancora devastate dai bombardamenti. Qualche ricercato, anche un paio di pendagli da forca, chissà: la guerra appena combattuta che non si dimentica, le raffiche, l’adrenalina. «Ma soprattutto tantissimi giovani inconsapevoli - dice Luca Fregona - allettati dalle offerte dei reclutatori, migranti economici, beccati mentre attraversavano il confine con la Francia magari per imbarcarsi a Marsiglia, destinazione Sudamerica».

Si sentivano, in molti, dei perdenti. Della guerra o della vita.

Fregona, giornalista, caporedattore dell’Alto Adige ha scritto un nuovo libro su di loro.

Si intitola “Laggiù dove si muore” (Athesia editore, 358 pagine, 14,90 euro, 150 foto, prefazione di Gianni Oliva, che sarà in vendita dal 10 giugno nelle edicole con il nostro giornale, nelle librerie e sugli store online. Presentazione giovedì 8 giugno alle 18 con il direttore Faustini al Museo Civico di Bolzano). Sottotitolo: Il Vietnam dei giovani italiani con la Legione straniera. Il suo primo libro sui legionari era stato “Soldati di sventura” e proprio grazie al successo di quel volume che scoperchiava un buco nero della nostra storia, è nato questo. Quasi indotto, sollecitato, dalla marea di telefonate, lettere, mail giuntegli da chi, da quel “Soldati di sventura”, aveva intravvisto il ricordo di un proprio caro, trovata la forza di aprire il cassetto dove giacevano impolverate lettere e fotografie di quella guerra orribile e lontana. Voluta dalla Francia, uscita con le ossa rotte dal secondo conflitto mondiale e con una gran voglia di riemergere come potenza. Ma potenza non lo era più. E la sua Indocina, quel Vietnam che voleva tenere dentro il suo vecchio impero, si era rivelato una trappola, coi partigiani nazionalisti di Ho Chi Minh che avevano giorno dopo giorno ricacciato la Legione, fulcro di quell’esercito coloniale, sempre più dentro la tenebra della giungla, fino a schiacciarla nell’ultima ridotta, Dien Bien Phu.

Perché questo nuovo libro sui nostri legionari?

Perché c’erano tante vite e tante storie da raccontare ancora. E perché non potevo farne a meno: dopo il primo libro, sono stato travolto dai ricordi di famigliari, amici, compagni d’arme.

Da cosa scappavano quei ragazzi?

Da una guerra perduta. E parlo di uomini nati intorno al ‘22 e che l’avevano combattuta. Erano stati fatti prigionieri e cercavano una via di fuga dalla loro condizione. O da una guerra appena conclusa e che aveva lasciato ferite profonde. Ragazzi di 18 anni nel ‘53, quando la guerra d’Indocina vive la sua fase più acuta”.

È in quel buco nero che finiscono?

Tanti non sanno che sarebbe stato così nero. Pensano all’avventura. Provano a scamparla da qualcosa.

Nel libro uno dei primi a parlare è Giorgio Cargioli, di La Spezia.

Cargioli a 18 anni entra clandestino in Francia in cerca di lavoro. Lui fa la stessa rotta che fanno oggi i migranti dall’Africa. È un clandestino, un fuggitivo come loro. Ha scalato lo stesso passo, che parte dalla frazione di Grimaldi, vicino a Ventimiglia, dove ora i gendarmi bloccano i fuggiaschi magrebini o afghani. Su quel passo, per dire come la storia non cambia mai, sono morti almeno cento ragazzi italiani in quegli anni. Da allora si chiama “passo della morte”.

Bisognava star proprio male per finirci, no?

“O avere fame. Lui viene arrestato dai francesi, sbattuto in cella e gli capita quello che è occorso a molti in quelle circostanze: viene adescato da un reclutatore, un sergente della Legione straniera di origine italiana.

La Francia aveva bisogno di soldati da spedire…

Appunto. Gli prospetta cinque anni di paga e di girare il mondo. Finisce a combattere nel delta del Fiume Rosso. Vede morti e massacri. I più duri sono i legionari tedeschi: “Sparavano anche ai bambini!”. Pensa: questa non è vita. Alla fine del conflitto, nell’agosto del 1954, diserta. Gli restano da fare altri tre anni nella Legione, e non ha nessuna intenzione di andare fare le stesse cose in Algeria, dove si sta combattendo un’altra guerra coloniale.

E cosa fa?

Passa con i viet che lo tengono in un campo di disertori al confine con la Cina per altri otto mesi: molti muoiono di fame e malaria. Lui sopravvive per miracolo. Alla fine, gli propongono di restare nel Vietnam del nord per contribuire alla causa socialiste e riscattarsi del suo passato di servo dell’imperialismo.

E lui?

È sfinito, vuole tornare a casa. Sfumata l’ipotesi di un rientro attraverso i Paesi comunisti, accetta di essere riconsegnato alla Francia insieme a centinaia di altri disertori italiani, tedeschi, spagnoli...

Non finirà bene, vero?

No, infatti viene arrestato, la corte marziale lo condanna a due anni. È il luglio del ‘55. Una nave prigione lo sta portando verso la galera in Algeria quando, in seguito ad un ammutinamento, i prigionieri si gettano nel canale di Suez…

Nel libro si vede, ad un certo punto, la riproduzione di una copertina di una rivista italiana. Vuol dire che in Italia la Legione era un argomento raccontato allora?

Molto. I giovani italiani in Vietnam erano migliaia e morivano come mosche. Le famiglie protestavano per quel reclutamento di massa. La copertina era della Tribuna Illustrata. Simile a quelle della Domenica del Corriere. Disegna gente che si getta in mare pur di fuggire dalla nave prigione dei disertori. Cargioli è uno dei trenta (su 104) riusciti a scappare. Tra loro c’era anche un bolzanino. Quando poi arriva a Genova, quei reportage gli fanno trovare decine di fotografi e giornalisti ad attenderlo. Il padre, che non sapeva che fine aveva fatto, tempo prima si era offerto di prendere il suo posto nella Legione per salvarlo.

Dunque è uno stereotipo quello che assegna solo a malviventi, ex fascisti o nazisti, gente che voleva menare le mani, la voglia di indossare la divisa di legionario?

Lo è. Ce ne furono moltissimi, certo, ma la gran parte degli italiani erano migranti economici, persone in fuga dalla fame e in cerca di futuro.

Ma gli ex combattenti c’erano no?

Certo. Anche molti trentini e altoatesini. Uno di loro era Ildo della Torre di Valsassina, il nonno di Alessandro Huber, dirigente del Pd altoatesino. Nato nel 1922, fa il Classico a Merano e il suo professore di greco lo inonda di mistica fascista. Entra nel battaglione Giovani Fascisti. Gli inglesi li chiameranno i “Mussolini boys”, tutti ragazzini dai 16 ai 18 anni. Il duce li tiene fermi per un po’. Nel 1941 li spediscono a combattere in Libia. Partono in 1.500. Combatte, si fa onore. È uno dei resistenti nella ridotta di Bir el Gobi, l’ultima trincea africana, l’ultimo baluardo dell’impero fascista. Si becca due pallottole nel petto, una granata nella gamba, ma anche il campo di concentramento inglese. Torna in Italia dopo uno scambio di prigionieri.

In Alto Adige?

Sì, che allora nel ‘43 è Alpenvorland. Finisce nella Wehrmacht. Anche per questo alla fine della guerra, a soli 23 anni, si considera un perdente. Da lì l’approdo nella Legione. Conosce Bottai, pure lui legionario, il ras del fascismo che fu uno di quelli che fece cadere Mussolini il 25 luglio. Lo mandano nel posto più terribile del Vietnam, il nord. È al confine con la Cina a tenere la strada che porta alla guarnigione di Cao Bang. Quella strada i legionari la chiamano “il boulevard della morte”. E infatti muoiono decine di legionari italiani. Torna dopo i 5 anni di ferma obbligatoria. “Basta violenza” si dice. Va ad abitare a Grozzana, vicino a Trieste, in una casa proprio sul confine con la Jugoslavia. E lì aiuta come può le genti in fuga dei Paesi dell’Est. Li vede profughi e fuggiaschi come lui anni prima.

In tutto quante storie racconta nel nuovo libro?

Sette. Sono sette storie di ragazzi tra i 18 e i 24 anni, di diversa estrazione e con motivazioni diverse. C’è anche un partigiano comunista di Aosta, Pierino Leone. A 18 anni aveva difeso la mitica “Repubblica di Cogne” dai nazifascisti.

E come è finito nella Legione?

Finita le guerra, nel ’46, è entrato clandestino in Francia. I gendarmi lo hanno preso a Marsiglia mentre tentava di imbarcarsi per il Brasile. Di fronte al ricatto: prigione o Legione, ha scelto la Legione. L’anno dopo era a combattere in una postazione sperduta sulla strada coloniale che collega la costa indocinese al Laos. È stato ferito. Uno suo commilitone di Trento, Luigi Baldessari venne ucciso.

Gli altoatesini nel nuovo libro quanti sono?

Tre. Oltre a Ildo della Torre, ci sono Alfredo Decarli e Aldo Zottele. Zoettele era di Roncegno, ma si era trasferito a Bolzano con la famiglia ancora da bambino. È partito per la Francia senza dire niente a nessuno, al fratello Nando però mandava regolarmente lettere e foto, che ho riportato nel libro. Dei sette, è l’unico che ha deciso di restare nelle Legione straniera. Ha combattuto anche in Algeria. Si è congedato nel 1965 con la cittadinanza francese ottenuta “per il sangue versato per la Francia”. Nel Delta del Tonchino si era preso tre proiettili nello stomaco.

E Decarli?

Se siamo riusciti a ricostruire la sua storia, molto lo si deve alla sorella Wilma che per 70 anni non si è mai arresa, cercando di sapere che fine avesse fatto. Alfredo si era arruolato a 19 anni nell’agosto del 1953 con l’idea ingenua di raccogliere i soldi per poter sposare la sua ragazza. I genitori dei lei si opponevano al matrimonio perché lo ritenevano di un rango sociale inferiore.

E come è andata a finire?

Malissimo. La ragazza lo lascia con una lettera che gli manda in Algeria durante l’addestramento. Lui arriva in Indocina alla fine del marzo ’54. Il 13 aprile si offre volontario per essere paracadutato a Dien Bien Phu pur non avendo mai fatto un “salto” in vita sua. Il 18, giorno di Pasqua, viene lanciato sulla conca. Il 19 muore per le ferite riportate in combattimento. Il suo nome non figura nella banca dati dei caduti in Indocina. Per settant’anni la famiglia sapeva solo che era morto ma non dove né quando. Del caso si è interessata anche la parlamentare Michaela Biancofiore. Grazie alle ricerche per il libro siamo arrivati al suo fascicolo e abbiamo capito cosa gli era successo. Gli era stata concessa anche la croce d’argento, ma il suo nome era finito sotto la polvere dalla burocrazia militare.

Cosa rimane dopo aver letto questo libro?

A me il fatto di aver risolto tanti misteri, dentro questo nostro buco nero. Volti riemersi dal nulla, morti senza nome che adesso invece lo hanno. Il grazie di amici e parenti riconciliati col proprio passato famigliare. C’è chi è riuscito a ritrovare fratelli dimenticati e mai immaginati, nati da amori lontani. Come i figli di Italo Tamoni, tornato drammaticamente segnato dall’Indocina. Non riuscì più a inserirsi in una vita normale. Si fece una famiglia in Italia, poi un’altra in Francia, tagliando alla fine i ponti con tutto e tutti. Il figlio italiano ha conosciuto i fratelli francesi grazie a questo libro.

Cosa è stata quella guerra?

Tale e quale il Vietnam americano. Chi ci è passato non dimenticherà più. Un ex legionario si è suicidato di recente, oppresso dai ricordi. A 92 anni.













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