«Il rischio? Replicare gli errori fatali fatti quest’estate» 

Scienza e Covid. Test di massa in Alto Adige, asintomatici, riapertura degli impianti... Ne abbiamo parlato con Paolo Vineis e Stefania Salmaso, due nomi di punta della ricerca europea «La stagione dello sci crea una situazione di elevata mobilità che innesca nuovi focolai»


Mauro Fattor


Bolzano. Sul Covid tutti in qualche modo si sentono autorizzati a parlare. In parte è anche comprensibile, persino legittimo. È un dramma che ci tocca da vicino, che ha sconvolto le vite di tutti. Ma quando si toccano temi sensibili di salute pubblica, uno non vale uno. Non è un meetup dei Cinque stelle prima maniera. E così quando si parla di screening di massa e di riapertura degli impianti di risalita per salvare la stagione invernale, i pareri di Tomba e di Messner, giusto per dirne due che in questi giorni vanno per la maggiore, per quanto rispettabili, valgono più o meno zero. Per questo, per capire qualcosa di più della situazione altoatesina di oggi, di queste ore, e degli scenari legati alla possibile riapertura degli impianti, abbiamo intervistato due nomi di primo piano della ricerca europea: Paolo Vineis, professore ordinario di Epidemiologia Ambientale all’Imperial College di Londra; e Stefania Salmaso, fino al 2015 direttrice del Centro di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute dell’Istituto Superiore di Sanità. Vineis e Salmaso hanno unito le proprie competenze, si sono confrontati, e hanno deciso di rispondere in modo consensuale e coordinato alle domande che abbiamo loro posto.

In Alto Adige, nell’ambito della lotta al Covid, è stato effettuato con successo un test rapido di massa. Qual è il valore di questo tipo di indagine nella definizione di una strategia antipandemica e quindi nell’ orientare le scelte della pubblica amministrazione?

La domanda è molto tempestiva e rilevante anche per lo scenario nazionale. Avere condotto uno studio sull’intera popolazione (o almeno la frazione elevata che ha risposto) è stato di grande utilità per avere un’informazioni più precisa sullo stato di avanzamento dell’epidemia. Assumendo che i risultati dei test rapidi siano attendibili, ora sappiamo che nella popolazione generale, almeno in Alto Adige, in un dato momento circa l’1% della popolazione è infettiva e asintomatica. A suo tempo era stata utile anche l’indagine sierologica dell’ISTAT, che aveva mostrato che circa il 2.5% della popolazione italiana, con grandissime variazioni geografiche, aveva anticorpi misurabili, cioè era stata esposta al virus. Dunque nessun dubbio sull’utilità conoscitiva e scientifica. Sul piano pratico ci sono alcuni punti da approfondire, per valutare l’utilità dello screening generalizzato. Primo, la qualità del test utilizzato andrebbe verificata. Infatti il test rapido può dare origine a molti falsi positivi (almeno il 50% dei risultati positivi se c’è una bassa frequenza di infezione). La validazione, che non sappiamo se sia stata prevista nello screening in Alto Adige, implica l’esecuzione di molti test molecolari di conferma in un sistema già sotto pressione dai numerosi casi identificati dalla sorveglianza ordinaria. Secondo, la sensibilità dei test rapidi è relativamente bassa, diciamo che circa il 30% degli infetti non viene identificato, e costoro potranno assumere comportamenti poco prudenti ritenendosi “assolti”. Il vantaggio dei test rapidi è che possono essere ripetuti facilmente, per cui esami periodici ravvicinati riescono a “catturare” comunque più soggetti positivi. Tuttavia tale possibilità non si applica ad uno screening di popolazione. In sostanza, il nostro parere è che i test rapidi vanno effettuati in specifici contesti, e cioè per migliorare il contact tracing (che ha avuto enormi problemi ovunque nelle scorse settimane ma può essere facilitato dai test rapidi) e, sotto forma di screening periodico, per prendersi cura di specifiche popolazioni ad alto rischio (lavoratori sanitari, RSA, anziani vulnerabili) in cui il numero di falsi positivi è inferiore per la maggiore frequenza dell’infezione.

Come vanno trattati gli asintomatici rilevati? Ritenete sufficienti le misure decise dalla Provincia in assenza di sintomi: dieci giorni di quarantena domiciliare, tutto in autodiagnosi, nessun controllo dei familiari conviventi, nessuna gestione assistita della quarantena? Non c’è il rischio, per esempio, di lasciare che pazienti paucisintomatici si dichiarino asintomatici?

Non c’è una grande differenza tra paucisintomatici e asintomatici dal punto di vista della contagiosità. Piuttosto, i medici di medicina generale dovrebbero controllare che effettivamente l’isolamento avvenga e i soggetti non sviluppino sintomi che richiedono un trattamento, attraverso un monitoraggio domiciliare, possibilmente basato sulla telemedicina. Inoltre è chiaro che i conviventi devono isolarsi, considerato che gran parte delle trasmissioni è intrafamiliare. Se il valore predittivo di un risultato positivo al test rapido è del 50%, si rischia che molte persone vengano messe in quarantena senza una reale motivazione, e con loro i loro contatti stretti.

In questo tipo di screening a tappeto su base volontaria, non c'è il rischio che le persone “a rischio” non si presentino falsando in qualche modo la fotografia della situazione?

Sì, certo. Chi ha buoni motivi per non mettersi in isolamento, per esempio per necessità di lavoro, ha meno probabilità di aderire. La proporzione di persone che hanno aderito allo screening in Alto Adige è estremamente alta per un programma offerto alla popolazione, ma di fatto c’è il rischio che la quota di coloro che non si sono presentati contenga magari persone sintomatiche che sono rimaste a casa.

Le regioni alpine chiedono la riapertura degli impianti in vita delle festività natalizie. Come valutate questa richiesta? Naturalmente la proposta è quella di aprire secondo standard elevati di sicurezza: capacità ridotte del 50%, vendita contingentata degli skipass, più controlli e altre misure ancora. Si rischia forse di finire come con la scuola, dove il contagio non avviene dentro gli istituti ma prima e dopo gli orari di lezione? In altre parole: il problema, in fondo, è sempre quello della difficoltà di gestire grandi flussi di persone?

Vediamo qui due componenti. La prima è tecnica. Crediamo che esistano molte opportunità per mettere in sicurezza la maggior parte delle attività produttive, cosa che è stata fatta durante tutta la pandemia nei settori produttivi essenziali. Tuttavia le attività ricreative di massa non sono un problema che riguarda solo i lavoratori del settore. La realtà è che sarebbe molto difficile riuscire a gestire in sicurezza tragitti in funivie e code agli impianti. Si rischia di ripetere gli errori fatti quest'estate con le discoteche e di alimentare così una nuova estesa circolazione del virus. La seconda componente è quella della responsabilità individuale, e questa è decisamente meno facile da controllare e purtroppo non ha brillato in nessuna delle fasi dell’epidemia. Ci preoccupa più la propensione a creare capannelli e assembramenti che la capacità degli imprenditori di attuare misure tecnologicamente avanzate. Il parallelo con la scuola è calzante, ma mentre salvaguardare l’istruzione è una necessità primaria, altri contesti devono essere valutati con altri parametri. Intendiamoci, il problema della stagione invernale, per tutte le implicazioni che ha, è un problema serio, ma di fatto ricreerebbe le condizioni di elevata mobilità per periodi inferiori al tempo di incubazione con l' esportazione di infezioni acquisite in Alto Adige a tutto il resto di Italia.

In altri termini?

Il concetto è che le persone che vanno a sciare per una settimana, se si infettano in Alto Adige, in Trentino, o in Piemonte o dove preferite, poi rientrano a casa e innescano focolai epidemici in altre zone del Paese. Nel contempo va ricordato che anche l’ afflusso di molte persone in Alto Adige facilita l'importazione di infezioni sul territorio provinciale.

In casi di riaperture affrettate o sbagliate, anche limitate nel tempo, quanto tempo è necessario per riportare una situazione di contagio in zona rossa? Ogni errore si paga caro?

L’impatto può esser rapidissimo, anche di pochi giorni. Il periodo di incubazione è circa cinque giorni, e inoltre esistono i superdiffusori, che possono infettare decine di persone in poco tempo.

Esiste un nesso causale diretto tra l'impennata di contagi della seconda metà di ottobre e il “liberi tutti” della stagione estiva, visto che nei mesi di agosto e settembre, e in parte persino in ottobre, la curva dei contagi è rimasta sostanzialmente piatta?

È evidente che con una diffusione esponenziale, come quella registrata in Italia fino all’inizio di novembre, all’inizio ci siano pochi infetti che passano anche inosservati ma che poi si moltiplicano nel giro di poche settimane. L’impennata è molto probabilmente attribuibile a focolai multipli di casi importati da altre regioni o insorti localmente. In Italia negli ultimi 30 giorni si sono verificati 843mila casi, una cifra impressionante e l’incremento è iniziato a fine settembre per esplodere in ottobre. Quale altra spiegazione ci può essere se non quella di una elevata mobilità e di una elevata numerosità di contatti efficaci?













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