In Tirolo gli affreschi “mangiati” dai devoti

Pezzetti di dipinto venivano incorporati nel pane di segale per garantirsi la tutela del santo



BOLZANO. San Cristoforo, per le sue molteplici funzioni, poteva essere legittimo successore dell’egiziano Anubi, protettore dei morti e delle necropoli – per questo in certi ritratti orientali san Cristoforo ha la testa di cane/sciacallo –, di Ermes messaggero degli dèi e di Ercole, per via della clava/bastone. Per i fedeli della nostra terra san Cristoforo era un santo apotropaico, allontanava la morte e ogni influenza maligna. E quando lo troviamo dipinto all’interno delle chiese, come nel duomo di Trento, è soprattutto sulla navata e sull’arco absidale, a protezione dell’altare, la parte più sacra dell’edificio, cuore pulsante della silenziosa pietra.

San Cristoforo era dunque un vero e proprio scrigno di salvezza, talmente caro ai fedeli che finivano per “mangiarlo”. Infatti moltissime sono le testimonianze, soprattutto in area tirolese, di affreschi e statue mangiati dalle persone. Il ragionamento era semplice: se il solo guardarlo salvava la vita per un giorno, figuriamoci mangiarlo. Ed ecco che, giorno dopo giorno, grattando un poco qui e un poco là, impastando poi questi frammenti murari con il pane che veniva cotto nei masi, l’affresco rimaneva mutilo. Il grande san Cristoforo che troneggia sul muro meridionale della chiesa di San Giacomo a Maranza (Rio Pusteria) è mancante della parte inferiore non per le intemperie o gli sfregi di qualche teppistello ma semplicemente perché, per secoli, frammenti infinitesimali sono stati incorporati nel pane scuro di segale ai quattro semi che si sforna due volte all’anno nei masi dei dintorni. Era stato lo stesso Burcardo di Worms (950-1025) a riferire che incenerire teschi umani per servirli in infusioni ai mariti malati era un rimedio casalingo per mogli preoccupate per la salute del coniuge. Hai fatto come alcune donne che prendono un teschio umano e lo bruciano, dandone in una bevanda la cenere ai mariti per guarirli? recita il penitenziale. Le antropofagie medioevali arrivavano a cibarsi di carne umana come atto di venerazione e d’amore. Diffuso fu l’impiego di “opere sacre” per confezionare pure preziosi e richiestissimi medicinali o, semplicemente, per preservare la già precaria salute. Ben lo sapevano gli “Schwabenkinder”, i bambini che dalla val Venosta – fino agli anni 30 del XX secolo – emigravano in estate a lavorare nei masi e nelle case dei signori dell’Alta Svevia e dell’Algovia: quando transitavano per l’ospizio di San Christoph am Arlberg (1800 m), nell’omonima valle, si fermavano davanti alla statua lignea del santo staccando una piccola scheggia che masticavano durante il transito del vicino passo per evitare di finir sotto valanghe o in mezzo a bufere, oppure che conservavano in tasca come antidoto contro la nostalgia. La statua, agli inizi del secolo, fu protetta da un’inferriata affinché non “sparisse” mangiata, per poi finir bruciata durante un devastante incendio nel 1957.

Se poi guardate i piedi del santo vi accorgerete che le acque che faticosamente attraversa pullulano di mostri: sirene, pesci granchio, pescecani, pesci uomini, ecc. Un intero bestiario malefico per indicarci come, da sempre, l’acqua è il luogo di mostri di cui Dio limita il potere racchiudendoli tra le due sponde, ma che tentano di far crollare Cristoforo e di impossessarsi dell’anima di Gesù bambino. L’acqua come simbolo del male ed infatti, nel giorno dell’Apocalisse, l’acqua scomparirà per sempre: ci saranno nuovi cieli e nuova terra ma il mare non ci sarà più (Ap. 21.1).

San Cristoforo riesce a non farsi mangiare dai voraci pesci-diavolo ma, per secoli, è finito nelle pance dei fedeli preservandone la vita.(fdg)













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