La conferenza

Legione straniera, il mito rinasce tra Kiev e Putin 

Al Teatro Cristallo di Bolzano, Luca Fregona con foto e documenti inediti racconta il dramma dei legionari italiani in Vietnam dal 1946 al 1954. «Mercenari di ieri e di oggi, motivazioni diverse ma lo stesso orrore»



Bolzano. Con la guerra in Ucraina, si torna a parlare di “legionari”. Legionari vengono definiti i volontari che stanno affluendo da tutto il mondo per sostenere la resistenza di Kiev. La “Legione Internazionale ucraina” a cui Putin ha subito contrapposto la sua: sedicimila mercenari mediorientali, reduci dalla guerra all’Isis in Siria. Quando si parla di Legione, il pensiero va subito alla Legione straniera francese, fondata nel 1831 da Luigi Filippo, il “re borghese”, per consolidare l’Impero coloniale. I francesi non ne volevano sapere di morire per l’Algeria, e così Luigi Filippo, prima arruola con il ricatto “Legione o prigione” i tessitori di seta di Lione, colpevoli di una rivolta per fame. E poi pesca “volontari” tra gli sconfitti di ogni causa e nazione. Cosa che la Francia continuerà a fare per i successivi 130 anni. Degli italiani che hanno combattuto in Vietnam con i Kepì blanc dal 1946 al 1954 (circa settemila, di cui un migliaio tra morti, dispersi e feriti), parlerà - anche con l’ausilio di foto inedite- il giornalista Luca Fregona, giovedì 17 marzo 2022 alle 18 alla Sala Giuliani del Cristallo di Bolzano (ingresso libero, prenotazioni www.teatrocristallo.it), partendo dal suo libro “Soldati di sventura”, che racconta la storia vera di tre ragazzi altoatesini finiti nelle paludi del Tonchino. «Un Vietnam, a differenza di quello “americano”, completamente dimenticato - sottolinea Fregona, caporedattore dell’Alto Adige - ma che fu altrettanto feroce e traumatico. E di cui oggi il conflitto in Ucraina, con le debite differenze, sembra l’ennesima variante».

In che senso?

In Indocina era la Francia a volersi riprendere la colonia, considerata un pezzo irrinunciabile dell’Impero. Oggi ci troviamo di fronte a uno zar che tenta di fare la stessa cosa nel cuore dell’Europa, e trova la stessa accanita resistenza.

Quali differenze e quali analogie tra la Legione Ucraina e i kepì blanc di quel periodo?

«I legionari di Kiev, tendenzialmente, sono dei volontari consapevoli. Aderiscono cioè a una causa che ritengono giusta. Certo, tra loro ci sono anche dei mercenari, contractors di professione, ma non è quella la spinta principale. Nella Legione straniera, invece, le motivazioni erano molteplici: disperazione, disoccupazione, miseria, la fuga per motivi politici o per conti in sospeso con la giustizia. Molti patrioti risorgimentali di casa nostra, come Carlo Pisacane, trovarono rifugio nella Legione. Allo scoppio della prima guerra mondiale, si arruolarono molti irredentisti italiani come il nipote di Garibaldi, Peppino, o lo scrittore Curzio Malaparte. La Legione garibaldina inglobata nella Légion étrangère, era composta interamente da volontari che volevano combattere contro i tedeschi ancor prima dell’ingresso dell’Italia nel conflitto. In seguito, nella Legione francese confluirono i russi bianchi in fuga dalla rivoluzione bolscevica, e poi anarchici, repubblicani spagnoli, comunisti e antifascisti di mezza Europa uniti dall’odio per Hitler. La Legione rimase fedele a de Gaulle e si batté con grande determinazione contro i nazisti in Nordafrica e a Narvik in Norvegia».

Poi c’è l’Indocina....

«Nel secondo dopoguerra, la Francia ha bisogno di carne fresca per la “sale guerre”, la “sporca guerra” in estremo oriente che i giovani francesi non vogliono combattere. Inizia così un massiccio arruolamento di “volontari” stranieri. Per certi versi, qui c’è un’analogia di Putin».

In che senso?

«Putin, in difficoltà sul piano interno per i soldati di leva che ha mandato al massacro in Ucraina, ora annuncia di avere pronti 16mila miliziani siriani. Una Legione straniera composta, questa sì, da mercenari fatti e finiti. È difficile credere a Putin quando parla di un’adesione ideale alla causa russa sull’Ucraina».

Come i tedeschi ingaggiati dalla Francia nel 1945 per l’Indocina...

«Sì. Ancora prima della fine della seconda guerra mondiale, de Gaulle va a prendere i “volontari” direttamente nei campi di prigionia. I soldati tedeschi, migliaia, accettano, perché non hanno scelta. Le ex SS si riciclano come fanatici istruttori. Per quanto riguarda gli italiani, se in un primo momento ad arruolarsi sono gli sconfitti (fascisti, reduci della Rsi), dal 1946 in poi si tratta prevalentemente di migranti economici. Ragazzi che espatriavano clandestinamente Oltralpe in cerca di lavoro. Una volta scoperti, venivano più o meno costretti a firmare l’ingaggio con il solito ricatto: «Legione o prigione?».

Le famiglie italiane protestavano per questo ingaggio coatto?

Certo. Quando arrivavano a casa le comunicazioni da Parigi con l’incipit: “Morto per l’onore. Morto per la Francia”, le famiglie indignate scrivevano ai sindaci, ai ministeri, ai giornali. Il Pci era in prima fila contro “l’ingaggio truffaldino dei giovani italiani per una guerra imperialista”. Il fenomeno aveva dimensione tali, da costringere più volte Degasperi a intervenire sul governo francese. In Italia, l’ingaggio venne proibito, ma i reclutatori si aggiravano dappertutto, specialmente nelle aree rurali e depresse, promettendo una paga ottima, la cittadinanza francese, e spacciando una visione romantica, edulcorata della vita nella Legione, tutta palme, donne e avventura. Questi reclutatori operavano anche in Alto Adige. Il fenomeno proseguì fino al 1960. Dopo la sconfitta in Indocina nel 1954, la Legione venne impiegata per sedare la rivolta in Algeria, fino all’epilogo del tentato colpo di stato che, nell’aprile del 1961, segnerà la fine di “quella” Legione. Oggi è un corpo militare d’élite, ridotto nei numeri».

Molti di quei ragazzi italiani disertavano?

Sì, la diserzione era endemica proprio perché l’arruolamento aveva questa dimensione di “massa”. L’addestramento durissimo, e poi l’orrore quotidiano in Indocina e in Algeria, spingevano molti a scappare. In centinaia tentavano di disertare, ma non tutti ci riuscivano. L’Indocina è stata un’esperienza traumatica per migliaia di giovani europei. Eppure, nel nostro paese, resta una pagina rimossa. Robert Capa, il più grande fotografo di guerra del Novecento, è morto in Vietnam il 25 maggio del ’54. Ucciso da una mina nel delta del Fiume rosso, là dove combattevano, disertavano e morivano i legionari italiani protagonisti del libro».

 













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