«Quella volta che incontrai il poeta Franco Loi» 

La testimonianza. In memoria di un grande della poesia dialettale «Un uomo che cercava sempre il ponte tra il “sentire” e il pensare» 


Marco Bertorelle


Bolzano. Si dice che la madre non la si può scegliere, il padre in qualche modo sì. Ma io il poeta Franco Loi non lo avevo scelto, bensì incontrato: in una serata, inconsueta come le recenti, 35 anni fa circa, fuori dal Circolo operaio “Walter Masetti” di via Resia, a Bolzano, coinvolto in uno scambio di palle di neve. C’erano alcuni ragazzi, io fra loro, ed uno strano uomo magro di mezza età: un poeta milanese, dicevano, un poeta impegnato. In quegli anni di politica di strada, si aveva orecchio per quelle voci, una curiosità profonda. Quella sera ha raccontato a noi ragazzi di tanto, tanto. Una generazione che aveva sofferto la guerra e le sue lacerazioni strazianti (i cadaveri degli antifascisti – anche amici di famiglia - esposti dai repubblichini a piazzale Loreto, per esempio), sperato nel dopoguerra di rinascita; immigrato a Milano da Genova (padre ferroviere sardo), “innestato” in quella fucina vivace ed aperta, partecipe delle sue contraddizioni sociali ed innamorato del suo fiume sotterraneo: il dialetto milanese. Studiavo Lettere all’Università, stavo finendo, è stata linfa per finire per davvero e cominciare per davvero perché quei versi, quella musica, quella sintonia con il pulsare della vita li riconoscevo. Una meraviglia, un mistero amoroso che ha fondato e sostenuto il nostro rapporto ed il mio camminare fino a ieri, 4 gennaio: alle 18 mi hanno telefonato che il nostro parlare dovrà seguire altre strade, la frequentazione umana essendosi improvvisamente interrotta. Era un filo oramai: 90 anni compiuti, pochissima vista rimasta, acuti problemi cardiaci recenti, “memoria a breve termine” labile eppure, il 18 novembre, a braccio, dal tavolo del suo semplice salotto, quasi apparizione del vecchio Ungaretti che smembrava l’Odissea: “Sì, seri estrus, e te dirù, Nuénta, / sun schittà giò a la gran piassa verta, / e l’era l’aria, o l’era la granisa / di tilli al Leuncavall che grapelaven…”. La prima strofa intera del suo poema “Strolegh”, 22 versi, scolpiti nel suo intimo di poeta, luogo nella sostanza integro dall’erosione del tempo. Lo cercherò, lo troverò, continuerò a parlargli e scoprirlo nei suoi tanti libri: “Da bambino il cielo”, la sua autobiografia/fotografia dell’Italia inquieta, la migliore quando sa essere onesta; le poesie, tante, disseminate in numerosi libri spesso volte a discernere dentro slanci di quella che chiamiamo vita; le pubblicazioni per i suoi 80anni perché “S’encuntrum, se pàrlum, quajcoss che restarà”, dialogare, sempre, intensamente, estenuatamente (anche in “Il silenzio”); il dialogo con qualcosa che chiamava lo Spirito, “ho fatto esperienza di quella Luce almeno due volte Marco, non è solo mia riflessione…Non c’entra andare in chiesa, c’entra l’anima, attento, poni attenzione alla voce della tua anima”; l’uomo che cercava il ponte fra il sentire ed il pensare, che pensava in maniera poetica, che rifletteva in tal modo la vita con esiti a prima vista sconcertanti (“Se noi rovesciamo la visione del mondo che ci accompagna almeno dal Rinascimento o, meglio, dal fallimento dell’Umanesimo, da quell’età di transito in cui il Medioevo è stato negato… ecco che si comprende meglio il grande avvento della poesia in dialetto di questi ultimi anni”)… C’è tanto da scoprire, ripensare in lui: leggerlo, ascoltarlo poi dialogare e ritrovarlo. “L’è inscì, amìs, che canta la speransa, / dèm libertà aj penser, fèm che sia vera / la carna che ‘n quaj diu g’à dà in sumensa” (2016).













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