“Soldati di sventura”,  già alla seconda edizione 

Il caso editoriale. Il libro di Fregona sui giovani italiani che hanno combattuto in Vietnam con la Legione ristampato dopo tre settimane. Grande interesse per una storia dimenticata


Paolo Campostrini


Bolzano. La Legione ha un suo passo. Lento, come quello degli Alpini. Sono diversi dagli altri perché la cadenza, ancora esibita nelle parate, porta con se il ricordo delle prime battaglie: nella neve e in montagna, oppure nelle sabbie del deserto, dove occorreva preservare il fiato. Ed è anche così che si può costruire un mito. Solo che a Dien Bien Phu, nel 1954, tra le trincee di fango, l’acqua che disfava i cadaveri dei legionari, la sete e la fame, non c'erano i “kepì" bianchi di Casablanca, gli amori rubati tra la sabbia o i canti dei consegnati negli avamposti africani tra le palme su cui erano stati costruiti gli scenari di decine di film anni '30. Il “cimitero della Legione”, ecco cosa fu Dien.

La battaglia-assedio che chiuse un epoca, quella del vecchio colonialismo europeo, schiacciando la Francia dentro un conflitto ormai più grande di lei. E con essa migliaia di vite. E dentro quelle, anche le vite di molti bolzanini. Alcuni non tornarono. Altri lo fecero ma a tal punto incapaci di dimenticare quel Vietnam da restarne segnati per sempre. Come una ferita inguaribile. O una colpa: quella di essere sopravvissuti. È dentro questo percorso di guerra e di esistenze che si è calato Luca Fregona, caporedattore dell'Alto Adige. E lo ha fatto, alla fine, con un libro: “Soldati di sventura” (Athesia editore, 12,90 euro), andato esaurito nel giro di tre settimane, ristampato in fretta e furia e che da oggi viene redistribuito nelle edicole e nelle librerie dell’Alto Adige. «Il grande riscontro che sta ottenendo il libro – dice Fregona – credo derivi dal fatto che questa storia sia pochissimo conosciuta. Il mito, positivo e negativo della Legione, in quegli anni era fortissimo. Ma i reduci non parlavano e spesso venivano visti come gente misteriosa, se non da evitare. Il libro, in qualche modo, smonta molti cliché sui legionari e racconta “un Vietnam” diverso da quello americano, ma altrettanto feroce». Nelle volume parlano tre di quelli che finirono a Dien Bien Phu, faccia a faccia con i viet, impegnati nella loro prima guerra di liberazione. A Fregona è successo quello che spesso accade ad un giornalista. Si alza il telefono, qualcuno ti racconta una storia. Si esce per un servizio e ci si trova davanti una vita che si rivela e che nessuno, prima di te, ha mai pensato di raccontare. Poi passano i giorni e da quegli incontri ne nascono di altri e da quelle storie cresce la voglia di leggere altre storie e pure il dubbio che, messo tutto insieme, sarebbe un peccato lasciare quei volti solo su una raccolta di giornali. Perché non un libro? Ecco, questo è successo a Fregona. E il libro è stato scritto. Soprattutto letto. Non solo dai famigliari dei vecchi legionari, dai loro amici o da chi li aveva conosciuti. Ma da tanti. Così tanti che, in poche settimana, è andata esaurita la prima edizione. Ora, si parte con la ristampa. Felicemente sorpresa, la direttrice editoriale di Athesia Tappeiner, Ingrid Marmsoler: «Siamo contentissimi del successo del libro, che abbiamo venduto straordinariamente bene in pochissimo tempo. Questo grazie all’eccellente lavoro dell’autore, e alla collaborazione con il team di distribuzione del quotidiano Alto Adige, le librerie e i numerosi lettori». L'operazione editoriale, infatti, è frutto di una collaborazione tra la casa editrice e il giornale. Nella sua prefazione, il direttore dell'Alto Adige Alberto Faustini sottolinea che il libro “ lo si legge come un romanzo, ma è anche un saggio storico pieno di testimonianze, di note reali, di frammenti ricostruiti con la magnifica curiosità del giornalista che scava e approfondisce». La ragione del successo del libro sta, forse, nel fatto che è risultato per molti sorprendente che un episodio così lontano (la prima guerra del Vietnam, che precedette quella ben più estesa successiva all'intervento americano) ci avesse toccati così da vicino. Che da qui fossero partiti ragazzi per vestire la divisa della Legione, che qui fossero tornati tenendosi spesso dentro gran parte di quello che avevano visto. Che, inoltre, nella Legione, altro elemento di grande rilevanza nel racconto di Fregona, non si andasse solo, romanticamente, per dimenticare un amore finito. O per scappare dalla gendarmeria. O per far perdere le proprie tracce in patria. No, nella Legione spesso si era costretti a finire.

Il bolzanino Beniamino Leoni, ad esempio. Emigrato subito dopo la seconda guerra, si ritrova in miniera. Non un lavoro: un inferno. Pensa: meglio l’Indocina che il nord della Francia a scavare carbone. Ci sta dieci anni. Viene catturato dai partigiani viet e combatte per loro. La Francia lo condanna per diserzione, in Italia il Pci lo porta ad esempio di conversione terzomondista e anticoloniale. Questa era spesso la scelta all'origine dell'arrivo in legione: una non scelta. Come scappare da un inferno all’altro, sperando che almeno l'altro non sia una miniera. Sta qui, un altro contributo pienamente storico de “Soldati di sventura”: raccontarci come la Legione fosse anche un luogo di arruolamenti forzati, di induzione alla divisa sotto la minaccia di altre, più gravi e dolorose, pene. Una pena di riserva per soggetti anche fragili e sbandati, non solo per uomini in cerca di avventura. Ma, probabilmente, anche la stazione di un personale calvario per vite già segnate e in cerca di nuovi orizzonti. Rudi Altadonna, altro bolzanino. Lui a Dien Bien Phu muore. Ma prima, viene sbattuto di qua e di la dai nostri confini. Papà italiano che nel '39 opta comunque per la Germania. Con Rudi che finisce arruolato nella Hitlerjugend e aiuta a tirar fuori i cadaveri dalle macerie delle città tedesche. Torna dopo la guerra. Ma a Bolzano si scopre incapace di riprendere una vita normale. Entra nella Legione. Scompare nell'ultima battaglia, il 24 aprile del 1954. Era appena arrivato in Indocina. Emil Stocker invece torna. Ha con se mille foto scattate laggiù, dopo essersi salvato chissà come. Ma quando torna non è più lui. O forse non lo è mai stato da quando i suoi genitori, optanti, lo condussero a Rufach, in Germania, dalla sua Merano e da qui in una scuola di Ss. E ne vede e ne vive di tutti i colori. Se ne va in Indocina per disperazione nel '51. Ecco, intorno a queste tre vicende, si dipana una vicenda di pagina in pagina sempre più estesa. Che prende dentro vite e morti, la Legione come luogo anche dell'anima, dove espiare colpe ma dove, altresì, crearsene di nuove come accade in chi non riesce a trovare pace. O la Legione come metafora della segregazione ma nella sua forma più sottile di condizionamento delle coscienze. Insomma, è un libro di storia e di storie anche molto personali. Uno scavo dove pochi avevano scavato almeno partendo, come fa Fregona, da vicende minime, che così apparivano per chi le ha sfiorate in luoghi così poco avventurosi come possono essere quelli intorno a Bolzano. “Soldati di sventura” si porta dentro il senso della scoperta, come di una indagine mai compiuta e dunque inedita perché sempre raccontata a metà. E ci fa entrare anche nelle segrete della coscienza, inerpicandosi tra il non detto delle scelte, in mezzo a vite alla ricerca di se stesse me sempre e comunque tese a conquistare una seconda possibilità.

Magari mettendosi in testa un kepì bianco che, come in un incubo, si trasforma invece in pochi giorni in un elmo da trincea. Dentro il quale tante vite, la loro nuova "chance" non l'hanno mai trovata.













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