Byron Moreno condanna l’Italia e annulla il viaggio sogno di una vita

Il campo è in discesa, un bel problema. Poi, a giocare sono solo in cinque; due contro tre. Tarcisio e Zaccaria contro Alfonso, Ivan e Damiano. I sassi come pali. Le linee laterali? Lasciamo perdere....



Il campo è in discesa, un bel problema. Poi, a giocare sono solo in cinque; due contro tre. Tarcisio e Zaccaria contro Alfonso, Ivan e Damiano. I sassi come pali. Le linee laterali? Lasciamo perdere. Tuto bon, vale tutto. Basta che il pallone esca dal «campo» dalla parte in discesa, e conviene mettersi il cuore in pace. A chi tocca l’ingrato compito di andarlo a recuperare? Al più piccolo di tutti, ovviamente. Damiano Tommasi. Che così corre, corre, corre. A riparlarne oggi, a distanza di tanto tempo, gli scappa un sorriso. «C’erano anche dei campi pianeggianti o quasi – mi dice - ma erano stabilmente occupati dalle mucche. Le quali lasciavano quelle che chiamavamo margherite. Facevano i loro bisogni, insomma. Se per caso si finiva a giocare da quelle parti, scarpe e pantaloni erano ad alto rischio.»

L’anno è il 1982, quello del Mondiale di Spagna. Siamo a Vaggimal, sui Monti Lessini, provincia di Verona. I Tommasi abitano a due passi da lì, a Sant’Anna d’Alfaedo. I cinque sono inseparabili. Damiano, i fratelli Zaccaria e Alfonso, il cugino Tarcisio, l’amico del cuore Ivan. Si siedono a un tavolo e buttano giù il tabellone del loro Mondiale, simile in tutto e per tutto a quello vero. Replicano le sfide che hanno appena visto alla televisione, ciascuno ha il nome di un grande campione: Paolo Rossi e Zico, Platini e Rummenigge. «Chissà, se ho preso parte ad un Mondiale magari devo ringraziare proprio quelle corse dietro al pallone. Ho giocato in un’epoca di calcio molto fisico. L’agonismo prevaleva su tante altre qualità. E questo, in qualche modo, mi ha aiutato a diventare professionista». Tommasi gioca e soprattutto si diverte. La voce gira, comincia ad arrivare gente dagli altri paesi della zona; le partite tre contro due sono un ricordo. «Ogni allenamento rappresentava l’opportunità di apprendere cose nuove. Ero in una perenne situazione di inferiorità: di mezzi fisici, di esperienza, di età. Solo tanti anni dopo ho pensato di avercela fatta, di essere diventato un calciatore. È stato quando alla Roma è arrivato Fabio Capello. Se gioco titolare con lui, mi sono detto, allora posso dire di aver raggiunto l’obiettivo».

La Roma a 22 anni, dopo tre campionati di B nel Verona. La prima volta lontano da casa, lontano dagli amici di una vita. Tarcisio e gli altri si organizzano per andarlo a vedere nella capitale. Partenza in treno alle due della notte fra sabato e domenica, arrivo a Roma alle sette del mattino, partita, ritorno a Verona all’una di notte. «Ragazzi, non so se succederà mai, ma se mi capitasse di giocare un Mondiale, sarete tutti con me. Ai biglietti e alla sistemazione penserò io».

Al calcio si affianca l’impegno civile, lo stesso che a Verona lo aveva portato a scegliere l’obiezione di coscienza. Per i romani di fede giallorossa diventa “anima candida”, ma non significa che in campo sia un angioletto: quando il gioco si fa duro, Tommasi c’è sempre. E la gente apprezza. Apprezza anche Dino Zoff, che lo convoca per l’amichevole Italia-Spagna del 18 novembre 1998 a Salerno. Il debutto nella nazionale maggiore. È l’alba del quadriennio che porterà al Mondiale di Corea e Giappone: Damiano ripensa alla promessa fatta a Tarcisio, Zaccaria, Alfonso e Ivan. Anche se la nazionale, per un po’, la guarderà in tv.

Si torna a parlare di lui dopo l’Europeo. La Roma gioca un campionato strepitoso e lo vince. Sulla panchina dell’Italia adesso c’è Giovanni Trapattoni. Damiano gli piace, forse si rivede un po’ in lui. Lo schiera in cinque partite di qualificazione su otto. Andrà al Mondiale. Damiano sale un’ultima volta a Sant’Anna d’Alfaedo prima dell’inizio del raduno. Si trova con Tarcisio e gli altri: «Vi aspetto per la seconda fase. Prima, meglio di no: troppi spostamenti, troppo tempo fra una partita e l’altra. Facciamo dopo gli ottavi. Sperando di andare avanti. Voi, intanto, incrociate le dita». Dall’altra parte del mondo fa le valigie anche quello che sarà il più giovane arbitro del Mondiale. Si chiama Byron Moreno, ha trentadue anni e viene dall’Ecuador, in Sudamerica lo paragonano a Collina per la personalità e la severità degli atteggiamenti. «Collina ci venne a trovare in ritiro, prima della partenza. Ci ricordò che avremmo trovato arbitri di altri continenti. Una delle caratteristiche dei sudamericani, disse, era quella di essere “monodirezionali”, nel senso che non erano abituati al dialogo in campo e dunque non avrebbero visto di buon occhio che si andasse a chiedere spiegazioni dopo un qualsiasi provvedimento».

L’Italia vince la prima, contro l’Ecuador: ottima prestazione, doppietta di uno straripante Bobo Vieri. Qualcuno si sporge dal davanzale e guarda oltre, agli ottavi di finale. Scrive Paolo Condò sulla Gazzetta dello Sport: «Meglio evitare la Corea del Sud. Gli asiatici corrono molto e saranno comunque i padroni di casa». Troppo ottimismo in giro. L’Italia perde la seconda, avversaria la Croazia. Comincia anche il Mondiale di Byron Moreno. Gli viene assegnata Stati Uniti-Portogallo: finisce 3-2, direzione di gara sufficiente, nessun episodio contestato. Trapattoni si gioca tutto nella terza partita, contro il Messico, una sconfitta e siamo fuori. Finisce 1-1, gol di Del Piero a cinque minuti dalla fine. L’arbitro, il brasiliano Simon, annulla due gol italiani e ammonisce sei azzurri. Per Fabio Cannavaro è il secondo giallo del torneo, salterà l’ottavo di finale in cui ci attende la Corea, proprio l’avversario che molti avrebbero voluto evitare. Tarcisio e gli altri hanno le valigie pronte, ancora una partita e si sale sull’aereo. Niente scherzi, Italia.

La nostra federazione chiede un arbitro di esperienza, che sappia reggere la pressione. La commissione della Fifa resta fino all’ultimo in conclave. «E se la dessimo a Moreno?» Finisce che ci tocca proprio l’uomo dell’Ecuador. Si gioca a Daejeon, la quinta città del paese. Ad accogliere gli azzurri, striscioni in italiano che danno il benvenuto alla «porta dell’inferno». Subito un rigore per i nostri avversari (c’era): Buffon para il tiro di Ahn, una riserva del Perugia. Segna Vieri, siamo nel pieno controllo della partita. Purtroppo non sfruttiamo la nostra evidente superiorità. A due minuti dalla fine, la difesa pasticcia e i coreani ci puniscono. Tutto da rifare. Fin qui, arbitraggio senza infamia e senza lode. L’apocalisse si materializza con l’inizio dei supplementari. Totti finisce a terra nell’area avversaria, sarebbe rigore. L’arbitro, lontanissimo dall’azione, corre verso il nostro numero dieci: simulazione, cartellino giallo. Il romanista, già ammonito, finisce sotto la doccia. Per i nostri cambia poco: sono più forti, continuano ad attaccare. E segnano: verticalizzazione di Vieri per Tommasi, gol di Damiano. Anzi, golden-gol. Peccato che lungo la linea laterale ci sia un signore con la bandierina alzata. È Jorge Rattalino, l’assistente di Moreno. Al momento del lancio di Vieri, Tommasi sarebbe stato al di là dei difensori coreani. Fuorigioco. L’ha visto solo il guardalinee. «Ho rivisto la scena quasi subito, mentre tornavamo nello spogliatoio. C’era un monitor che mandava in onda gli highlight. È stata dura da digerire». Anche perché dopo il gol ingiustamente annullato è arrivato quello valido. Nella porta italiana, purtroppo. E chi lo ha segnato? Ahn Jung-hwan. Quello che prima si era fatto parare il rigore da Buffon, quello che nella stagione che portava al Mondiale ha segnato un gol in quindici partite con la maglia del Perugia.

A diecimila chilometri di distanza, qualcuno disfa le valigie già pronte. Il sogno di Tarcisio, Zaccaria, Alfonso e Ivan è svanito sul più bello. Il destino ha voluto diversamente. Solo il destino? E se dietro ci fosse stato un disegno volto a estromettere l’Italia a vantaggio della nazionale di uno dei paesi organizzatori? Tommasi: «Se è così l’hanno pensato male, il disegno. Avremmo potuto far saltare il progetto in qualsiasi momento. Questione di centimetri, di tiri finiti fuori di un nulla. Sportivamente parlando è stata una partita bellissima. Lo stadio era pieno, la tensione partiva dalle tribune e arrivava fino al campo. Era la tensione di tutti quei tifosi che sapevano di vivere una giornata storica. Poi, per carità, nel calcio e non solo nel calcio tutto è possibile. Ce ne siamo accorti negli anni successivi. Io, però, quel giorno pensavo a fare il calciatore e non l’investigatore».

Dopo Corea-Italia sarebbe tornato a casa anche Byron Moreno. Il minimo che potesse capitargli. Noi italiani, però, siamo riusciti nell’impresa di farne un personaggio a scoppio ritardato. Lo abbiamo invitato a casa nostra, gli abbiamo aperto le porte di uno studio televisivo, lo abbiamo fatto sfilare in occasione di un corteo di carnevale. Infine, la scena madre. Settembre 2010, un uomo sovrappeso e sudaticcio si presenta ai controlli dell’aeroporto John Fitzgerald Kennedy di New York. Lo perquisiscono e gli trovano addosso quattro chili e mezzo di eroina. Davanti a Byron Moreno si spalancano le porte del carcere: trenta mesi di reclusione ridotti a ventisei per buona condotta. Chissà se anche quel giorno a Daejeon…Non lo sapremo mai. Sappiamo, in compenso, come la pensava un grande del giornalismo, Candido Cannavò. Le sue riflessioni dopo la sconfitta: «Vergogna, certo, dinanzi all’azione di killeraggio che l’Italia ha subito nei tempi supplementari. Ma abbiamo il dovere di dividere la storia in due parti: l’infamia e il peccato. Chiederci come, con un gol di vantaggio, abbiamo mandato al macero nei novanta minuti regolamentari una vittoria che ci spettava per diritto di verità, di cronaca, di storia. Che l’Italia non abbia messo al sicuro la sua vittoria è una sorta di crimine tecnico. Nei 90 minuti nessuno ci ha rubato nulla, la vittoria l’abbiamo buttata via noi».

A Damiano Tommasi restano i ricordi: «Uno dei più belli, aver avuto il privilegio di essere in campo nell’ultima partita in nazionale di Paolo Maldini. Per me, il giocatore italiano più forte e più rappresentativo degli ultimi anni. Io, partendo da Vaggimal, sono arrivato a giocare un Mondiale al suo fianco. Non solo: assieme a lui e a Buffon sono stato l’unico a non aver saltato un minuto. Forse, e adesso faccio una battuta, è per questo che siamo usciti così presto. Scherzi a parte potevamo vincerlo, quel Mondiale. Erano uscite Argentina, Francia, Inghilterra. In finale sono arrivati Brasile e Germania, ma non erano certo il miglior Brasile e la miglior Germania. Mi piace pensare che proprio da lì, da quella sconfitta, sia partita la riscossa che ci ha portato ad alzare la coppa quattro anni dopo. Perdere in quel modo ha dato a Buffon e Cannavaro, a Gattuso e Totti le motivazioni giuste per rialzarsi e prendersi la rivincita con gli interessi».













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