HOCKEY

Da Bolzano a Las Vegas, Mike Rosati racconta 30 anni da “numero 1” 

Nel 1990 approda in città un giovane canadese che ben presto conquista i tifosi. Sei stagioni a difesa della gabbia biancorossa e tanti trofei, prima dell’avventura a Mannheim. Ha giocato anche con l’Italia e in NHL. Oggi è capo allenatore dei portieri ai Vegas Golden Knights (foto copertina archivio HCB Alto Adige)


Paolo Gaiardelli


BOLZANO. Ci sono simboli che resteranno per sempre. Come quelle spine impresse sulla maschera, o le iconiche ragnatele a segnare i gambali, o ancora il numero “37”, capace di infondere sicurezza a compagni e tifosi. Tratti distintivi di un mito, dell’unico, originale, “uomo ragno”. Il portiere per definizione sul vocabolario biancorosso. In tre parole, scandite bene, come solo Oscar Dalvit sapeva fare: Mike “Spiderman” Rosati.

Sentire oggi la sua voce, che arriva da oltreoceano - non dalla nativa Toronto, ma da Las Vegas, dove vive e lavora con il team NHL dei Vegas Golden Knights -, è compiere un piacevole e magico tuffo nel passato. Fatto di ricordi, emozioni, gioie, successi, passione. Sa di gioventù, ovviamente, perché, con trent’anni di meno, eravamo tutti dei bocia spensierati. Ma soprattutto ha il dolce sapore della consapevolezza di essere stati spettatori di qualcosa di irripetibile. Per gran parte degli anni Novanta, se avevi la passione dell’hockey su ghiaccio, Bolzano era infatti il posto migliore al mondo in cui vivere. E questo grazie a loro, a chi scendeva sul ghiaccio, in via Roma, prima, al Palaonda, poi; una squadra legata a doppio filo con la città che rappresentava.

Capitan Robert Oberrauch e Mike Rosati (foto archivio HCB Alto Adige)

«C’era un grande gruppo, con tanti ragazzi giovani, molti del posto, e certamente avevamo voglia di vincere - racconta Mike Rosati, con l’HCB dal 1990 al 1996 -. Dimostrare di poter battere chi in quegli anni stava dominando la scena era il nostro obiettivo. Alla fine ce l’abbiamo fatta ed è stato fantastico».

Se lo ricorda ancora l’inizio della sua avventura in biancorosso? È stato “amore a prima vista”?

«I primi mesi non sono stati facili. Avevo 22 anni e subito le cose non sono andate come volevo. La squadra l’anno prima aveva vinto lo Scudetto, io alternavo prestazioni buone ad altre meno. Avevano dato le chiavi della porta ad un ragazzo e sentivo questa pressione. Con il passare del tempo, sarà stato novembre o dicembre, le cose sono comunque cambiate, sono migliorato io ed è migliorata la squadra. E sì, si è creato quel feeling speciale che ha scandito tutta la mia esperienza a Bolzano».

In sei stagioni sono arrivati due Scudetti, una Alpenliga e un Torneo Sei Nazioni. C’è un titolo al quale è maggiormente affezionato?

«Ognuno ha qualcosa di speciale. L’Alpenliga perché il primo, conquistato dopo due finali perse, vincendo una semifinale incredibile contro Graz, con Zarrillo che ci portò all’overtime a pochi secondi dalla sirena: è un ricordo unico. Ma lo sono anche gli Scudetti. Quello del 1995 contro Varese, in gara 5, davanti al nostro pubblico, inseguito per tanto tempo e per questo bellissimo. Quello del 1996, importante anche dal punto di vista personale, perché già nei playoff sapevo che l’anno successivo non ci sarei più stato e volevo salutare con un successo. Il Sei Nazioni, poi, trascinati da uno Jaromir Jagr spaziale. Vincere è sempre difficile, mai scontato. Ci vogliono tante componenti, dal super campione a chi fa il lavoro sporco; è importante che tutto vada per il verso giusto, che si crei quel mix speciale e da noi c’era sicuramente».

A proposito di Jaromir Jagr, la scorsa estate è tornato al Palaonda e ha dichiarato di ricordarsi che a Bolzano, nel 1994, c’era un “goalie” molto forte...

«Ricevere un complimento del genere è un onore. Lui è davvero una persona speciale. Mi ricordo che alle Olimpiadi di Nagano 1998 stavo pranzando con gli azzurri bolzanini e ad un certo punto è entrato lui nel locale con altri NHL-ers. Appena ci ha visti è venuto a salutarci, a chiederci come stavamo. È stato un gesto semplice, ma che ti dice che ragazzo è. Alla fine è stato a Bolzano due settimane, e quasi quattro anni dopo si ricordava ancora di noi. Questo vuol dire tanto».

È anche un segnale di quanto fosse forte e magnetico quel gruppo?

«Sicuramente. La nostra forza era lo spogliatoio, vivere tutti i momenti assieme, anche fuori dalla pista. C’era tanta complicità e voglia di fare grandi cose. Poi avevamo un ottimo rapporto con i tifosi, sentivi e vivevi la passione. La fila di persone alle prevendite dei biglietti in via Roma; il Palaonda pieno per le finali: tutto incredibile».

Momenti che hanno fatto la storia biancorossa, come l’ha fatta Gino Pasqualotto, che ci ha lasciati la scorsa estate. Che ricordi ha di lui?

«Gino è indimenticabile. Un uomo pieno di vita e pieno di energia. Sempre presente. In spogliatoio, al pub, a cena. Era l’anima di Bolzano. Ho imparato molto da lui. Mi diceva sempre: “Bocia, metti due borracce sulla porta: una per mi e una per ti”. Voleva dirmi che ci sarebbe sempre stato, ed infatti era realmente così».

Gino: «Indimenticabile»

Ancora oggi ha l’occasione di condividere con qualcuno i momenti passati a Bolzano?

«Il mondo dell’hockey non è così grande. Qui, spostandomi per lavoro, sento e incontro ancora Bruno Zarrillo, che è a Winnipeg, poi, non molto tempo fa, sono stato a cena anche con Gates Orlando, che è nello staff dei New Jersey Devils. Per le questioni italiane mi tiene aggiornato l’amico Luca Zanoni. Appena andato via mi interessavo di più personalmente, ora è lui che mi dice come va la squadra e non mi perdo nulla».

Dopo Bolzano il secondo grande amore in Europa è stato Mannheim...

«Sì anche lì ho avuto la fortuna di giocare in una squadra forte, seguitissima dal pubblico e di vincere tre campionati di DEL. Quando le cose vanno bene i tifosi sono sempre attaccati al team, ma bisogna mantenersi ad alti livelli, perdere non è più un’opzione. Come detto sono stato fortunato, ma anche orgoglioso delle scelte fatte. Bolzano e Mannheim sono state le uniche due squadre in cui ho giocato in Europa e sono diventate entrambe una seconda casa per me. Ci sono rimasto perché l’ho voluto. Dopo due anni che ero in Italia, ad esempio, le offerte non mancavano, magari sarei potuto andare a Milano o da altre parti; ma io volevo solo il Bolzano. E così è stato in Germania».

In tutti gli anni trascorsi nel Vecchio Continente si è distinto anche con il Blue Team...

«La Nazionale è stato un altro capitolo importante. Il massimo per un giocatore. E ci siamo sempre fatti valere, abbiamo tenuto testa a grandi team, certamente più forti di noi, e ottenuto risultati molto buoni. Ho dato sempre il massimo, perché è grazie a mio papà, nato in Italia, che ho potuto vestire quella maglia, e giocare bene era l’unico modo per sdebitarmi, visto che lui è morto prima di potermi vedere in azzurro».

È legato a suo padre anche il numero che ha segnato la sua carriera, l’iconico “37”?

«Proprio così. Da bocia i portieri in Canada avevano o il numero 1 o il numero 30, e io indossavo sempre quest’ultimo. Poi quando venni draftato dai New York Rangers, al primo rookie camp mi diedero il 37. Io non è che fossi felice, ma proprio in quel periodo mancò mio padre, che era del 1937. Mi sembrò un segnale: allora decisi che quel numero mi avrebbe sempre accompagnato».

Veniamo al capitolo NHL, prima da giocatore, visto che in carriera può vantare un’apparizione tutt’altro che banale. Che ricordi ha di quel match?

«Fu nel novembre de 1998 ed ero il backup dei Washington Capitals nella sfida in casa di Ottawa. Le cose non si erano messe bene. Eravamo sotto 5-3 e io sono entrato a metà incontro. Mi ricordo che appena arrivato davanti alla porta mi sono guardato intorno e ho pensato: “Qui si staranno tutti chiedendo chi è questo”. Beh, le cose andarono bene. Non subì neanche un gol e vincemmo quella partita per 8 a 5. Scherzando con i miei amici dico sempre che sono stato io a non voler giocarne una seconda. Così posso dire di non aver mai perso una partita in NHL e nemmeno di aver mai preso un gol».

La nuova avventura in NHL

Oggi è di nuovo lì, con i Vegas Golden Knights. Che sapore ha questa esperienza?

«Sto vivendo un vero e proprio sogno, non lo nascondo. È un lavoro bellissimo e i tifosi sono incredibili, lo sono stati dal primo giorno. Ho iniziato a collaborare con Las Vegas da subito, dal 2017, quando è iniziata l’avventura in NHL. Prima come scout, alternandomi successivamente come assistente allenatore dei portieri; oggi ricopro il ruolo di capo allenatore dei portieri. Questa stagione va in scadenza il mio contratto, ma spero che ci sia la possibilità di proseguire. Non voglio ancora svegliarmi».

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