Juan Riquelme e quel rigore della “vendetta” mai calciato

Le due squadre sono nei pressi delle rispettive panchine. Tensione alle stelle: ci si gioca una semifinale Mondiale. Ai rigori. Germania o Argentina, una delle due affronterà l’Italia a Dortmund....



Le due squadre sono nei pressi delle rispettive panchine. Tensione alle stelle: ci si gioca una semifinale Mondiale. Ai rigori. Germania o Argentina, una delle due affronterà l’Italia a Dortmund. Berlino, Olympiastadion, 30 giugno 2006. C’è un giocatore, un argentino, che la sua partita l’ha già finita, sostituito poco prima della mezz’ora del secondo tempo. Si chiama Juan Román Riquelme. Cerca con gli occhi il portiere tedesco, Jens Lehmann. Avrebbe voluto prendersi una personalissima rivincita, invece dovrà restare ai bordi del campo.

L’antefatto. Villarreal-Arsenal, ritorno della semifinale di Champions League. Gli inglesi, con il tedesco fra i pali, hanno vinto di misura la partita di andata, 1-0. L’episodio-chiave, al quarantatreesimo della ripresa. Rigore per il Villarreal. Sul dischetto, Riquelme. Rincorsa, tiro. Anzi, «tiretto»: né forte, né angolato. Un gioco da ragazzi, per Lehmann, respingere quel pallone. Fine del sogno, Villarreal tradito dal suo giocatore di maggior talento.

Sono passati 65 giorni da quel rigore sbagliato. Riquelme cerca Lehmann con gli occhi. Il tedesco è appoggiato al palo della porta. Gli si avvicina Andreas Köpke, il preparatore dei portieri della Germania. Allunga a Lehmann un foglietto. Lehmann lo prende, lo legge, lo infila sotto il parastinchi. Contiene l’elenco dei possibili rigoristi dell’Argentina con le rispettive caratteristiche. Il primo nome è quello di Juan Román Riquelme. «Links hoch» ha scritto a penna Köpke. Alto a sinistra. Chissà se l’avrebbe tirato davvero in quel modo. Nella semifinale di Champions aveva calciato rasoterra, magari proprio quell’errore l’aveva convinto a cambiare qualcosa. Quarto della lista di Köpke, Roberto Ayala. «Rincorsa lunga, tira alla propria destra.» Lehmann memorizza e para. Poi si ripete quando sul dischetto va Esteban Cambiasso. Germania in semifinale. Il «pizzino» che Köpke ha passato a Lehmann oggi fa bella mostra alla Haus der Geschichte, il museo di Bonn che raccoglie testimonianze sulla storia tedesca dal 1945 a oggi.

Germania 2006 è il primo Mondiale di Riquelme. Ha ventotto anni, finalmente ha trovato l’allenatore giusto, José Pekerman. Con lui in panchina, l’Argentina è stata tre volte campione del mondo Under 20. La seconda, era il 1997, in mezzo al campo «governava» Riquelme. In Germania non riesce a ripetersi. Maledetti rigori.

Argentinos Juniors, Boca Juniors, Barcellona. Le prime tre tappe della carriera di Juan Román sono le stesse di Diego Armando Maradona. Fra loro ci sono diciotto anni di differenza, ma hanno fatto in tempo a giocare una manciata di partite assieme. Il 25 ottobre 1997 Riquelme parte dalla panchina. È giorno di derby, di «Superclasico». River Plate-Boca: in Argentina, la madre di tutte le partite. A fine primo tempo, con il River avanti uno a zero, il Pibe comunica all’allenatore Héctor Veira di non sentirsi bene. Al suo posto entra Riquelme. Il Boca rimonta e vince 2-1. Cinque giorni dopo, Maradona annuncia il ritiro.

Riquelme ha diciannove anni. A volerlo al Boca era stato Carlos Bilardo, il commissario tecnico campione del mondo in Messico. Peccato che Bilardo sia durato poco. Con Héctor Veira, Riquelme ha meno spazio. Finisce decentrato sulla fascia: come guidare una Ferrari con il freno a mano tirato. Lui si esprime al meglio da trequartista, qualsiasi altra posizione lo penalizza, lo intristisce. Poi Veira viene esonerato e sostituito da Carlos Bianchi, reduce dalla deludente esperienza di Roma. Il suo Boca giocherà sempre e comunque con lo stesso modulo: 4-3-1-2. L’uno è Juan Román, quello che in Argentina chiamano «enganche», dal verbo «enganchar», agganciare. È il nome che danno al trequartista, colui che tiene legati fra loro centrocampo e attacco.

Sono anni memorabili, per il Boca. Arrivano le vittorie in campionato e nella Libertadores, la Champions League del Sudamerica che una volta vinta da diritto a sfidare la squadra campione d’Europa. Il 28 novembre 2000, Riquelme ha ventidue anni, l’avversario da battere è il Real Madrid. La sera che precede la partita, nel ritiro del Boca la tensione è altissima. Si fronteggiano due partiti, quello di Riquelme e quello di Martín Palermo. Il primo sponsorizza Marcelo Delgado, il secondo Barros Schelotto. C’è da decidere chi giocherà in attacco al fianco di Palermo. La spuntano i «riquelmisti». Pronti via, e il Boca è avanti due a zero. Doppietta del centravanti che a tutti i costi voleva al suo fianco Barros Schelotto. Gli assist? Il primo di Delgado, il secondo di Riquelme. Roberto Carlos accorcerà le distanze, ma più di questo il Real non riuscirà a fare. Boca sul tetto del mondo.

L’anno dopo, altra Coppa Libertadores in bacheca. Il Boca la vince ai rigori, contro i messicani del Cruz Azul. Fra chi dal dischetto non sbaglia, c’è Juan Román Riquelme. Il 2001 è anche l’anno in cui Diego Armando Maradona disputa la partita di addio al calcio. È il 10 novembre. L’Argentina (del passato e del presente) affronta una selezione di stelle provenienti da tutto il mondo. A un certo punto Maradona si toglie la maglia dell’albiceleste: sotto ne ha un’altra, del Boca Juniors. La maglia di Juan Román Riquelme. Sa tanto di investitura.

Riquelme è un diez diverso da Maradona. Difficilmente fa sessanta metri palla al piede saltando gli avversari come birilli. Sembra arrivare da un’altra epoca, da un calcio meno fisico e più tecnico; gli ammiratori, però, sono tanti. E poco importa che Juan Román non entri nei ventidue dell’Argentina per il Mondiale 2002. Alla fine, l’asta la vince il Barcellona. Al ragazzo di Buenos Aires la cosa non dispiace, tanto più che si parla di un «pacchetto» allievo più maestro: Riquelme e Carlos Bianchi assieme anche in Spagna. Non sarà così, alla fine parte soltanto Juan Román. A Barcellona trova Louis Van Gaal, uno con idee non proprio simili a quelle dell’ex tecnico della Roma. L’immagine è quella di un ragazzo triste e taciturno, anche troppo. Da qui il soprannome di «El mudo», «il muto». Arriva il giorno in cui Van Gaal, nel chiuso dello spogliatoio, pronuncia la frase che equivale a una bocciatura: «Ragazzo, con il pallone fra i piedi sei il migliore del mondo. Quando il pallone ce l’hanno gli altri, però, è come se giocassimo in dieci».

Riquelme capisce che nel Barcellona, «quel» Barcellona, non riuscirà mai a imporsi. Si fa avanti il Villarreal, espressione di una cittadina di 50 mila abitanti a mezz’ora di macchina da Valencia. Posto tranquillo, squadra con tanti sudamericani. Nel 2004 l’allenatore diventa Manuel Pellegrini, cileno, una laurea in ingegneria nel cassetto. Riquelme gradisce. Segna quindici gol nella Liga, il suo record in una stagione. Il Villareal chiude al terzo posto, che garantisce la partecipazione alla Champions League che verrà. La Champions di Villareal-Arsenal, del rigore di cui abbiamo parlato in apertura di capitolo.

Stavolta, Riquelme sa che il Mondiale lo giocherà. Sarà il primo, per lui. Poteva essere il secondo se non addirittura il terzo, ma non ha voglia di voltarsi indietro. L’Argentina è forte in ogni reparto. L’attacco è stratosferico, con il diciannovenne Leo Messi che potrebbe diventare l’arma in più. Le chiavi del centrocampo sono nelle mani di Juan Román. Germania-Argentina sarebbe la partita ideale per salire l’ultimo gradino. Chi batte i padroni di casa, può giocarsela con chiunque. Qualcosa, invece, non funziona. L’Argentina passa in vantaggio (colpo di testa di Ayala) e sembra in pieno controllo della situazione. In realtà commette l’errore di amministrare il risultato. Riquelme non vive la sua migliore giornata, a metà ripresa lascia il posto a Cambiasso. Passano 8 minuti e Miroslav Klose pareggia. Il resto, lo abbiamo già raccontato.

Si ricomincia, ed è come se la magia fosse svanita. Il Villarreal è la brutta copia della squadra arrivata a un passo dalla finale di Champions League. Il 3 settembre 2006 va in scena Argentina-Brasile, vince la Seleçao 3-0. Riquelme torna in Spagna e convoca i giornalisti: «Da quando è finito il Mondiale continuano ad attaccarmi. Mia mamma è finita due volte all’ospedale. Questo non posso accettarlo, lei è la persona più importante nella mia vita». Quindi, Riquelme? «Quindi lascio la nazionale». Avrà bisogno di un po’ di tempo per sbollire la rabbia, poi farà marcia indietro. Torna, segna nove gol in nove partite. È un’altra persona, adesso. Forse perché dal gennaio 2007 è di nuovo in Argentina, nel suo Boca Juniors. Si avvia a compiere trent’anni, non è troppo tardi per giocare un altro Mondiale. La nazionale sta per essere affidata a Diego Armando Maradona. Esperienze da tecnico, zero virgola zero. Però è Maradona. Come se bastasse essere stato un grande giocatore per diventare un grande allenatore.

Morale: “entra” Maradona, “esce” Riquelme. Juan Román disputa la cinquantunesima e ultima partita in nazionale l’11 ottobre 2008. Si congeda con una vittoria, due a uno contro l’Uruguay. Un mese dopo, a Glasgow, comincia l’avventura del Pibe. Durerà diciannove mesi, fino al Mondiale del Sudafrica. All’Argentina sarà di nuovo fatale la Germania. Niente rigori, stavolta: i tedeschi liquidano la pratica nei tempi regolamentari. Quattro a zero, tanto per gradire. Sicuri che all’albiceleste non servisse Riquelme? A Juan Román non sono mai piaciute le scelte di Maradona, e nemmeno certe dichiarazioni rilasciate davanti alle telecamere. Divergenze, mettiamola così, calcistiche ed etiche: troppo diversi, sul campo e nella vita, per entrare in sintonia. Il bello è che quando si tratta di prendere posizione, i tifosi del Boca Juniors non hanno dubbi: stanno dalla parte di Riquelme. Tutti, senza eccezioni. La scelta di lasciare la nazionale? Ha fatto bene.

Il cerchio, ormai, sta per chiudersi. Gli resta una missione: riportare nella massima serie l’Argentinos Juniors, la squadra dei suoi inizi. Missione compiuta. Smette felice, Juan Román. Adesso, per tutti, è l’«Ultimo diez». L’ultimo ad aver dato dignità a quel numero magico. Riuscirà anche a «riavvicinarsi» a Maradona, basteranno poche parole: «Sono fortunato, ho avuto il privilegio di giocare con il più grande di tutti». Una definizione di Riquelme? Ce la dà Jorge Valdano, uno che in valigia ha sempre dosi massicce di saggezza e fantasia: «Chiunque, dovendo andare da un punto A a un punto B, sceglierebbe un’autostrada a quattro corsie impiegando due ore. Chiunque tranne Riquelme, che ne impiegherebbe sei utilizzando una tortuosa strada panoramica, ma riempendovi gli occhi di paesaggi meravigliosi». Se poi volesse allungare ancor di più il proprio viaggio, l’«Ultimo diez» potrebbe fare un salto a Bonn, alla Haus der Geschichte: troverebbe un pezzo di carta che racconta di un rigore mai tirato.















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