Maglie rosse e guanti neri  i mille colori del dissenso costato caro agli sportivi

Bolzano. «Nessuna forma di manifestazione o di propaganda religiosa, politica o etnica è consentita all’interno degli stadi, del villaggio e in qualsiasi altra area delle Olimpiadi». È quanto recita...



Bolzano. «Nessuna forma di manifestazione o di propaganda religiosa, politica o etnica è consentita all’interno degli stadi, del villaggio e in qualsiasi altra area delle Olimpiadi». È quanto recita la regola 50 della Carta olimpica approvata nel gennaio scorso. Solo pochi giorni fa il presidente del Comitato Olimpico Internazionale, Thomas Bach, ribadendo il “no” a propaganda politica, religiosa o razziale nei siti olimpici, ma ha aperto alla possibilità di esprimere il sostegno a certi principi. Una piccola retromarcia in un momento difficile con il mondo infiammato dai movimenti di protesta, dal MeToo al Black Lives Matters.

Due casi indimenticabili

Le proteste nello sport sono iniziate all’inizio del secolo scorso. Comportamenti ed atteggiamenti più o meno plateali, tra diversità politica, ideologia o colore della pelle, hanno segnato e sporcato momenti che sarebbero stati bellissimi.

Una chiara protesta in campo internazionale ha visto al centro anche l’Italia. Fu quella di Adriano Panatta quando indossò la maglia rossa anti-Pinochet. Correva il dicembre del 1976 in piena dittatura del generale cileno Augusto Pinochet. In Italia s’era acceso il dibattito se far partecipare l’Italia del tennis alla finale di Coppa Davis – poi vinta 4 a 1 – oppure boicottarla. Prevalse la linea di partire per il Cile. Sulla terra battuta dello stadio Nacional di Santiago, Panatta decise di indossare una maglia rossa per protestare contro Pinochet e i gerarchi del regime.

La dimostrazione più eclatante fu quella alle Olimpiadi di Città del Messico datata 16 ottobre del 1968. Sul podio dei 200 metri, Tommie Smith e John Carlos, rispettivamente primo e terzo della gara, sollevano il pugno con un guanto nero (simbolo del Black Power) per protestare contro la violazione dei diritti degli afroamericani. È l’anno degli assassini di Martin Luther King e Bob Kennedy. Smith e Carlos sono saliti a piedi scalzi a simboleggiare la povertà, la testa bassa, e una collana di piccole pietre che Carlos indossava al collo rappresentando le vite dei neri americani linciati perché si battevano per la libertà. Meno nota è la storia di Peter Norman arrivato secondo. L’australiano indossava la stessa coccarda dei compagni di podio, il distintivo simbolo dell’Olympic Project for Human Rights e in un odcomentario su di lui si racconta che fu lui stesso a prestare i guanti neri ai due spirnter ameracani. Norman pagò caro il suo gesto con la cancellazione da tutte le competizioni successive.

Più di un secolo fa

0La prima forma di protesta risale, però, al 1906 durante le Olimpiadi intermedie di Atene. Protagonista l’irlandese Peter O'Connor che inscenò una singolare forma di protesta. Riconoscendosi solo nel vessillo irlandese, O'Connor sul podio del lungo (fu argento) s’arrampicò sul pennone e sostituì la bandiera britannica con una del proprio paese che s’era portato con sé.

Il rifiuto di arruolarsi nel 1967 per combattere la Guerra del Vietnam («Non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato “negro”», disse), costò il processo per renitenza alla leva e il titolo mondiale conquistato tre anni prima nei pesi massimi a Cassius Marcellus Clay Jr. Muhammad Ali venne arrestato e non poté combattere fino al 1971 quando la Corte Suprema statunitense annullò la condanna.

Nel marzo ‘69 ai Mondiali di hockey di Stoccolma, la Cecoslovacchia batte per due volte l’Unione Sovietica con 12mila svedesi a manifestare al grido “Dubcek, Dubcek” e a Praga la folla assaltò gli uffici della compagnia sovietica Aeroflot oltre che a causare disordini con i soldati.

Il 5 dicembre del 1976, un anno dopo la morte del dittatore spagnolo Francisco Franco, Ignacio Kortabarría e José Ángel Iribar, rispettivamente capitano del Real Sociedad di San Sebastian e dell’Athletic Bilbao (entrambe squadra basche), stesero a centrocampo la “ikurrina”, la bandiera basca che Franco aveva bandito.

Nel 1996 fece scalpore il gesto di Mahmoud Abdul-Rauf, giocatore dell’NBA che rimase nello spogliatoio durante l’esecuzione dell’inno americano che lui considerava “un simbolo di oppressione”. In seguito l’atleta ottenne di poter pregare anziché cantare l’inno nazionale. Nel giorno simbolico del Cinco de mayo (5 maggio), nel 2010, per manifestare contro una legge sull'immigrazione particolarmente repressiva approvata in Arizona, la squadra di pallacanestro dei Phoenix Suns cambiò maglia. Ne adottò una con la scritta “Los Suns” in solidarietà con la popolazione latino-americana dello Stato americano.

Due le proteste nel 2014, entrambe nel basket. La giocatrice Ariyana Smith fece parlare di sé per aver alzato le braccia durante l'inno protestando per l’omicidio di Michael Brown, diciottenne afroamericano ucciso dalla polizia americana a Ferguson in Missouri. LeBron James e altre star dell'NBA indossarono in allenamento una t-shirt con la scritta “I Can't Breathe” (“non posso respirare”) per dare voce alle ultime parole di Eric Garner, afroamericano ucciso strozzato da un poliziotto a Staten Island (New York).

Nel gennaio del 2016 sul campo di Larissa in Grecia, dopo il fischio di inizio partita, i giocatori sia dell’Ael Larissa che dell’Acharnaikos rimasero seduti in campo per un paio di minuti per richiamare l’attenzione sulle stragi di migranti naufragati al largo della costa greca. Nell’aprile del 2016, il quarterback Colin Kaepernick fu il primo ad inginocchiarsi – comportamento considerato oltraggioso – durante l'inno nazionale americano rifiutandosi così di «dimostrare orgoglio per la bandiera di una Nazione che opprime le persone di colore e le minoranze etniche». Per il suo gesto Kaepernick rimase senza squadra. In quell’occasione il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump dichiarò che «chi si rifiuta di onorare l’inno andrebbe licenziato». Ai Mondiali di nuoto master di Budapest del 2017, il 72enne nuotatore spagnolo Fernando Alvarez, anziché tuffarsi in acqua, rimase in piedi per un minuto sul blocchetto di partenza in segno di protesta contro l’organizzazione che non ha accettato di fare osservare un minuto di silenzio in ricordo delle vittime dell'attentato terroristico di Barcellona avvenuto pochi giorni prima. Nel giugno del 2018 l’amichevole fra Israele e Argentina, prevista a Gerusalemme, venne annullata causa le minacce di gruppi terroristici ai calciatori latinoamericani.















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