«Soffro il distanziamento sociale, la paura è entrata nella testa delle persone» 

Parla la leggenda altoatesina della kick boxing. «In palestra si sta allenando solo  Magdalena Pichler, forse dal 18 maggio saranno in quattro, ma le direttive sono troppo rigide»


Matteo Igini


Franz Haller è leggenda. Nella sua carriera ha vinto tutto e di più negli sport da combattimento eppure, nonostante i numerosi titoli mondiali conquistati tra kickboxing e boxe thailandese, non ha mai perso quella umiltà che lo contraddistingue. Umiltà e rispetto che cerca di trasmettere anche agli atleti della “Ring Fighting Sports FH”, società fondata nel 1991 da Barbara Callegarin, moglie di Haller.

Franz, come sta attraversando questo difficile momento?

«In seguito all'emergenza sanitaria ovviamente ho dovuto chiudere la palestra e ho sfruttato questo momento per leggere e informarmi».

Le manca la palestra?

«Per me è un luogo importante, soprattutto adesso che ho superato i 60 anni e devo restare in attività. Non posso stare fermo (risata, ndr). Comunque da lunedì, in base al decreto del Governo, si sta allenando in palestra solo la nostra Magdalena Pircher, perché è un’atleta di livello nazionale. Forse dal 18 maggio, dentro la struttura, potranno invece allenarsi in quattro, ma sempre mantenendo le distanze stabilite dal decreto e senza l’utilizzo degli spogliatoi. Le direttive sono rigide ed è quasi impossibile seguirle. Per questo motivo tante palestre faranno fatica a riaprire prossimamente e ci auguriamo che almeno da settembre si possa tornare alla normalità perché in queste condizioni è molto complicato. Purtroppo la paura è entrata nella testa delle persone. La gente teme il contatto e questa distanza sociale fa molto male all’essere umano. Io personalmente soffro la distanza sociale, non fa bene all’umanità e ho paura possa avere ripercussioni, anche gravi, nel prossimo futuro. Io, ad esempio, vedo più la mascherina come un bavaglio».

Lei ha dato tanto, e continua a dare, agli sport da combattimento. Qual è stato il suo match più bello?

«Ricordo in particolare l'incontro a Sassari, nel 1996, per il titolo mondiale Wako di boxe thailandese, che però non è stato riconosciuto in Thailandia, ma questo non è stato un problema. Per me è stato comunque importantissimo perché in quell’occasione ho sconfitto il campione thailandese Lakchart, che era superiore a me tecnicamente, ma sono riuscito a batterlo in tutte e cinque le riprese. Volevo vincere a ogni costo e ci sono riuscito grazie alla tenacia e alla preparazione atletica, che hanno prevalso sulla tecnica del mio avversario. Ci sono stati comunque tanti match che ho disputato anche in circostanze un po’ estreme. Adesso il mondo degli sport da combattimento è tutto strutturato e programmato, mentre noi ci siamo dovuti costruire. È stata una grande avventura e, dalla “a” alla “z”, abbiamo dovuto inventare tutto. Una volta, infatti, c’erano molti più ostacoli, soprattutto economici. Non era semplice andare avanti».

E lei ce l’ha fatta.

«È stata una sfida esistenziale, però ho sempre cercato di non danneggiare chi mi stava vicino. Fortunatamente è andato tutto bene, sono riuscito a costruire una famiglia e sono felice di quello che ho realizzato. Ma non è stato facile, perché durante la mia carriera ho fatto cose che fisicamente erano controproducenti».

Tipo?

«Salire e scendere di peso per necessità sportiva. Non va bene, un atleta non dovrebbe farlo, ma per andare avanti e guadagnare qualche lira in più ho dovuto farlo».

Immaginiamo, appunto, che abbia dovuto fare tanti sacrifici durante la sua carriera...

«Sì, i sacrifici sono stati tanti. Infatti se non hai la testa molto dura e se non sei testardo non vai avanti. Ho dedicato la mia vita alla kickboxing, che per me è una missione. Alle superiori, ho fatto l’istituto commerciale, quindi di contabilità un po’ me ne intendo, ma a chi lo racconto viene da sorridere. Alla fine non ho vissuto, ma sono sopravvissuto attraverso lo sport».

Cosa cerca di insegnare ai suoi atleti?

«Il rispetto. È fondamentale nella nostra disciplina. Questi sport, al di fuori, possono sembrare violenti. Tutt’altro. Ti aiutano a capire e a rispettare. E infatti vedo che i miei ragazzi sono tra i più tranquilli. Attraverso lo sport ci liberiamo dello stress accumulato».

Da qualche anno avete iniziato un interessante progetto con un'associazione per svolgere corsi a pazienti affetti da sclerosi multipla. Come procede questa attività?

«Con loro ho un contratto morale. Collaboriamo come volontariato e ho una stanzina nel loro edificio. I pazienti si allenano con i nostri agonisti ed è una convivenza bellissima. Nessuno si sente superiore e tutti si aiutano. Lo sport associato al sociale è una gran bella cosa. Tutta la nostra struttura commerciale è basata sulla concorrenza, ma dovrebbe essere fondata sulla collaborazione. Mi affascina la teoria di Silvio Gesell (economista tedesco scomparso negli anni Trenta, ndr ) con la sua idea di collaborazione per escludere la concorrenza».

Nella sua carriera ha vinto tantissimo, ma c'è spazio un rimpianto?

«No, secondo la mia filosofia non ci può essere alcun rimpianto. La vita è una continua esperienza e bisogna guardare sempre avanti. Quando ero ragazzino, a Merano, un manager di Milano mi fermò e mi propose di praticare della boxe perché diceva che avevo delle mani formidabili. A me, però, piaceva combattere anche utilizzando le gambe e così rifiutai – conclude Haller – E sono felice di avere percorso questa strada, nonostante arrivi ancora qualche critica, perché dicono che sarei potuto diventare un grande pugile».

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