Un «marziano» a Bolzano arrivato dal pianeta NHL 

“Chip” però qui ci ha messo radici, sposandosi e tornandoci poi ogni anno


di Marco Marangoni


BOLZANO. Come un marziano è approdato a Bolzano proveniente dalla National Hockey League. È stato il primo capitano degli Edmonton Oilers da quando venne istituita ufficialmente (1979) la famosa lega professionistica nordamericana. Ha giocato in linea con Bill Flett ed è stato compagno di squadra del più grande giocatore di tutti, Wayne Gretzky, e del monumentale Mark Messier. Nomi che fanno venire i brividi a chi mastica l’hockey. È stato un centro di stecca destra, in virtù del suo numero di maglia (7) è stato soprannominato “The Magnificent Seven” ma ben presto per il popolo biancorosso è diventato semplicemente “Chip”. Da dirigente è conosciuto come “Il Santone”,al secolo è Ron Chipperfield. Si, proprio lui, “Chip Chip Chipperfield” come canticchiava la tifoseria al vecchio caro palazzo del ghiaccio di via Roma. Ron oggi è un referenziato agente di giocatori che dal Nordamerica tentano l’avventura sul mercato del Vecchio Continente.

Sposato con la bolzanina Cristina Coin, Chip trascorre un mese all’anno di “riposo” nel capoluogo altoatesino. Sempre con l’agenda in mano pronto a non farsi trovare impreparato nel dirottare l’uno o l’altro giocatore in qualche squadra tedesca, ceca, slovacca e, perché no?, italiana, il mitico numero 7 dei petrolieri di Edmonton e del Bolzano lo abbiamo incontrato in piazza Walther per una chiacchierata-revival.

Cosa fa adesso Ron Chipperfield?

«Da 22 anni sono procuratore dell’agenzia Optima World Sports e seguo giocatori che dalle leghe nordamericane, non direttamente dall’NHL, vanno a giocare in Europa. Vivo a Vancouver e una volta all’anno vengo a Bolzano, città che è entrata nel mio cuore sin da quando giocavo».

Ci racconta perché era approdato al Bolzano?

«Diciamo che quello accadutomi all’epoca è stato un po’ rocambolesco. Avevo ancora due anni di contratto con l’NHL ma gli Oilers mi hanno barattato con il portiere di Quebec, Ron Low. Con i Nordiques, però, oltre a giocare poco non mi trovavo bene. Ero in difficoltà e ho minacciato: “Se non mi mandate in un’altra squadra, il prossimo anno vado in Europa”. Una cosa che oggi non si può fare perché tra NHL e federazione internazionale c’è un accordo ben definito su questi movimenti. Ho contattato il mio agente e sono andato a Bolzano».

Che atmosfera ha trovato a Bolzano?

«Bellissima, c’era un gruppo che voleva vincere tutte le partite, non come in NHL dove ne vinci due, ne perdi due e così via. Ero partito dal Canada per giocare un solo anno ma alla fine sono rimasto per tre stagioni. Mi è subito piaciuto lo stile di vita. Al termine della stagione non ero tutto rotto come in NHL e quindi sono riuscito a giocare a golf, la mia grande passione. L’ultimo anno a Bolzano ho sofferto di forte mal di schiena, l’allenatore (Toni Waldmann, ndr) non voleva giocassi, ho insistito, sapevo che era la mia ultima stagione e alla fine abbiamo vinto lo scudetto».

Che ricordi la legano a Bolzano?

«Oltre a mia moglie e a mia figlia Alexandra, a livello sportivo non posso dimenticare Dieter Knoll, Mario Vinci, Renato Minnei e i collaboratori Otto Bonvicini, Franco Laurati e Rino Fontana. Grande l’amicizia con Gino (Pasqualotto), Martin (Pavlu) col quale ho giocato in linea, e Roby (Oberrauch). Knoll è stato bravo ad andare in EBEL dove il livello è molto buono».

Ricordi sportivi?

«Battere il Gardena e le sfide contro il Cska Mosca che era la squadra più forte del mondo. Da allenatore sono contento di aver portato al Bolzano molti giocatori, Orlando, Zarrillo, Nilsson, Zanier, Topatigh, Maslennikov, Vostrikov, Manno, Beattie e soprattutto Jagr».

A proposito di grandi giocatori, lei è stato compagno di squadra e di linea di Wayne Gretzky: cosa ci racconta di lui?

«Wayne era semplicemente il più grande di tutti, ha vinto tutto quello che poteva vincere – (The Great One nella stagione 1983-1984 entrò nella leggenda segnando ben 100 gol in 93 match tra regular season e playoff, ndr) –. Era un ragazzo molto rispettoso, merito anche dell’educazione data dai genitori. La sua grande dote era la visione di gioco, sembrava avesse dieci occhi. Per questo ha fatto la differenza. In quegli anni il gioco in NHL era molto aperto e quindi c’era più possibilità di segnare. L’impostazione era più offensiva, adesso più difensiva: le squadre hanno visto che si vince anche così».

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