Una vita in dieci anni: dall’oro alle provette, Schwazer si racconta 

Oggi, due lustri fa, vinceva la 50 km di marcia alle Olimpiadi «Non m’interessa tornare, lotto per la giustizia ordinaria» 


di Marco Marangoni


RACINES. Sfogliando l’album dei ricordi, in particolare quelli legati al grande sport altoatesino, ti soffermi su una data: 22 agosto 2008. Dieci anni sono passati, proprio oggi, dall’indimenticabile marcia trionfale di Alex Schwazer sulle strade di Pechino nella rassegna a 5 cerchi. L’oro olimpico della 50 chilometri lo abbiamo incontrato nella sua casa di Stanghe, alle porte della romantica Val Ridanna. Un’intervista in esclusiva che ripercorre questi intensi (anche troppo) dieci anni.

Cosa ricorda del 22 agosto di dieci anni fa?

«Il tempo è volato. Cullo ricordi bellissimi. Non avrei mai pensato di arrivare alle Olimpiadi in uno sport che in Alto Adige non praticava quasi nessuno. Ero tranquillo, stavo bene, era caldo-umido, un clima per me ideale. Della gara mi ricordo solo che attorno al 42° chilometro sono andato via senza voltarmi mai fino all’arrivo. Negli ultimi otto chilometri sono andato davvero molto forte. Quando sono entrato nello stadio ero talmente emozionato che non ricordo più tante cose».

Se le nomino Sandro Damilano, lei cosa risponde?

«Grazie a Sandro Damilano ho potuto fare la marcia ad alto livello, lui è stato il primo a considerarmi. Ci sono stati però episodi che mi hanno fatto male. Da quando ha iniziato ad allenare anche i cinesi, nel 2009, il rapporto tra noi è cambiato. Il nostro sport è abbastanza povero e per lui i soldi contano. Non credo sia andato con la Cina per una questione solo di obiettivi».

E se le dico Sandro Donati?

«Per me significa molto di più rispetto a Damilano. Essendo io molto ambizioso, con Donati ho davvero capito quello di cui avevo bisogno: un vero allenatore lo chiamo guida. Dopo Pechino non l’ho mai più avuta fino alla primavera del 2015, quando è iniziata la collaborazione con Donati. Lui sta sempre con te, nel bene e nel male. Per me Donati è come un secondo padre. È un combattente, perché se siamo a questo punto sulla questione provette è anche merito suo. Da solo questa battaglia non avrei mai potuto affrontarla, sarebbe stata una lotta impari. Lui conosce i personaggi e soprattutto conosce come si muovono».

Tante le cose dette e scritte... Quella che le ha fatto più male?

«I concorrenti che si fingono amici e poi scopri che lo fanno per trarre un proprio vantaggio. Pierre Edoard Sottas (responsabile Wada dei controlli antidoping, ndr) aveva scritto che mi ero dopato già nel 2010. Non è vero. Sosteneva ciò perché aveva visto che i valori dei reticolociti erano aumentati fino agli Europei di Barcellona e poi erano calati. Un paradosso, perché nel 2010 mi avevano fatto un solo test sui reticolociti, uno o due giorni prima della 20 km di Barcellona. Come faceva a vedere altri valori se non esistevano? È spuntato un valore di ematocrito alto nel maggio 2010, di un controllo privato che non esiste. Nessuna traccia di questo esame negli archivi dell’ospedale di Vipiteno! Non ho problemi ad andare contro queste persone. Wada e Iaaf non faranno mai fatica a trovare un professore certifichi ciò che a loro è più comodo. Sono molto forti, loro posso far effettuare i controlli nel laboratorio che vogliono. Ecco perché parlo di una lotta impari. Io cosa sono? Io sono solo un atleta».

Si parlerebbe di una sospetta manipolazione delle provette: secondo lei dove è stata commessa?

«Io la chiamo porcata e questa è stata fatta a Stoccarda presso il deposito del service dove le provette sono rimaste per una notte (tra l’1 e il 2 gennaio 2016). Dopo che la mia urina è stata certificata negativa dai tecnici di Colonia con all’interno presenza di alcol, improvvisamente dopo tre mesi quella stessa urina è diventata positiva. Su queste provette si sono accaniti. La mia è una vicenda tremenda che deve far riflettere tutti, perché un’urina partita negativa è improvvisamente diventata positiva».

Un dispetto nei confronti di chi?

«Di entrambi, me e Donati. Lo hanno fatto per screditare Sandro».

Cosa si aspetta dall’arrivo delle provette?

«Posso solo dire che sarà una lunga battaglia. Quando arriverà la perizia non si canterà vittoria, sarò un punto di partenza, non di arrivo. Mi sta dando molta forza il comportamento della giustizia italiana che non si fa intimorire da nessuna istituzione. Se si continua così, con continue verifiche, si arriverà alla verità. Io avevo un precedente per doping e nessuno avrebbe immaginato che avrei chiesto l’esame del Dna».

Nell’ipotetico caso di cancellazione della squalifica, tornerebbe alle gare?

«Non ho alcun interesse di tornare. Sotto l’aspetto della giustizia ordinaria ci sarà tanto da lottare. Serviranno tante energie mentali a me, ai miei avvocati (Brandstätter e Tiefenbrunner, ndr) e a Sandro (Donati, ndr). È già scritto che la giustizia sportiva è diversa da quella ordinaria. Vedremo come andrà e se si arriverà alla revoca della squalifica. Ricordo che l’esame del Dna non è contemplato dalla legislatura sportiva».

Torniamo indietro, alla pagina nera. Quando ha iniziato a doparsi?

«Nella primavera del 2011 quando ho ordinato i primi gel al testosterone».

Perché è ricorso al doping?

«Sono entrato in un tunnel. Non ce la facevo più a sopportare che i russi si dopavano. Io a Pechino avevo l’ematocrito a 37, Borchin (marciatore russo, ndr) ha vinto la 20 km a 57 col benestare di Fischetto (già medico Fidal e della Iaaf, ndr)».

Guarda ancora l’atletica in televisione?

«L’unica televisione che guardo sono i documentari di animali assieme a mia figlia Ida».

Cosa sta facendo nella vita?

«Alleno gli amatori e mi trovo bene. Dedico più tempo possibile alla famiglia che mi dà tanta forza. Adesso le priorità sono altre».

Si sposerà con Kathrin?

«Potrebbe essere».

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