Non più guerra e torna la pace, memorie da Cavalese e Nova Ponente
In questi giorni è uscito un mio libro dal titolo “Il Figlio di Hüttler” nel quale ricordo e descrivo i miei tre anni trascorsi al Colle e a Nova Ponente sul finire della guerra. Parallelamente il mio amico Alberto Pasquali – avvocato - mi ha allungato una sua memoria scritta che fa a sua volta riferimento a quel periodo. Ricordi che ormai si diradano, col diradarsi delle persone che quegli avvenimenti li hanno vissuti, mentre sarebbe interessante che le generazioni successive potessero oggi ancora accedere alle tante storie individuali connesse con quei momenti. Spesso drammatici (è il caso di un altro mio amico, l'ing. Giuliano Zamunaro, che da casa sua, davanti allo stabilimento Lancia, assistette ad un breve scontro a fuoco nel quale un uomo restò ucciso da tedeschi in ritirata).
Alberto Pasquali, ancora bambino, s'era rifugiato invece al sicuro con la famiglia a Cavalese, non lontano da Ziano, Stramentizzo e Molina di Fiemme, dove reparti di SS in ritirata si scontrarono con partigiani e si ebbero 45 morti. Qui di seguito il suo ricordo, fortunatamente non cruento: “A fine aprile si parlava dell'arrivo degli americani e un giorno si sentì un passo cadenzato. I cavalesani accorsero in piazza per festeggiare i vincitori ma era un reparto di soldati tedeschi in ritirata. Fuga generale. Ed ecco pochi giorni dopo gli americani con un grande frastuono di camionette e di autoblindo, con soldati di colore che distribuivano cioccolata a josa, tra un tripudio di bandiere americane ed italiane. Per la prima volta in vita mia assaggiai la cioccolata, che era stata bandita da anni dall'alimentazione nazionale. Un ultimo ricordo di Cavalese è legato al pianto disperato di mia sorella Adriana (futura senatrice, ndr) alla notizia della fucilazione del Duce e della sua esposizione a Piazzale Loreto: mia sorella, che aveva allora 17 anni (ma frequentava già la terza al liceo classico) era di solidi sentimenti fascisti, essendo cresciuta durante il regime. Ebbe a soffrire molto per la fine del regime, pur avendo amici che avevano idee molto diverse”. Quanto a me ero con la famiglia a Nova Ponente e mi accorsi che qualcosa era cambiato perchè, dopo che erano scomparsi i prigionieri russi che abitavano nello “Schloss”, ove oggi c'è il municipio, e che lavoravano alla costruzione della strada per Monte Pozza, dove c'era la contraerea, una sera si accese il lampione al centro della piazza. Ero talmente abituato al buio dell'oscuramento (si vedevano in compenso bellissime le stelle) che una luce accesa all'aperto non me la potevo nemmeno immaginare. Al mattino a colazione mi trovai in cucina con un tedesco in divisa: era un disertore che fuggiva tra i monti verso casa sua, in Germania (parlava un bel tedesco, non il dialetto sudtirolese). Mia madre l'aveva ospitato per la notte e lui mi diede una fetta di salame con Schwarzbrot: mi parve un sapore paradisiaco. Poi arrivò una strana macchina americana, una jeep, che recava a bordo due militari in una strana divisa, due americani, che accompagnarono un bolzanino sudtirolese sfollato all'Unterkircher, dove i tre rimasero fino all'indomani. E vennero anche dei militari italiani in una divisa elegante di color kaki, con i baschi (il nostro regio esercito era formato da gente malvestita in grigioverde, con le fasce attorno ai polpacci e in testa la bustina). Si posizionarono dietro a casa nostra, sdraiandosi sul prato, dietro ad una staccionata, e incominciarono a sparare raffiche contro il prato antistante, seminando la zona di bossoli. Un contadino più tardi imprecò contro tutti quegli spari che avevano sconvolto l'erba, io raccolsi felice quei bossoli che portai a casa per collezionarli, come al Colle avevo collezionato schegge di bombe che mia madre però mi aveva buttato via, perché “portavano sfortuna” e avrebbero richiamato altre bombe. Forse erano militari della “Folgore”, che giunsero in effetti a Bolzano con i primi americani ed inglesi (questi ultimi si accasermarono nelle scuole Regina Elena, ora intitolate a Dante). Pochi giorni e apparve un militare italiano vestito di kaki con in testa un berretto con visiera lucida: non ci volli credere, ma era un carabiniere. Quel carabiniere simboleggiava lo Stato italiano, che tornava ad imporre la sua rassicurante presenza. Qualche settimana ancora, e su, verso l'Obkircher, al limitare del bosco, apparve un grande vessillo bianco-rosso: qualche tirolese, tenutosi defilato fino a quel momento contro i padroni fascisti e poi nazisti, dopo aver asportato dalla caserma dei carabinieri, ove era esposta, la bandiera italiana tornava a manifestare il suo desiderio d'indipendenza. Ricordo l'anziana signora Ravanelli, d'origine austriaca e sfollata anche lei, che raccontava d'aver avvicinato i “ragazzotti” tirolesi che avevano messo in atto quella bravata di desistere e non fare più stupidaggini, perché la cosa si stava facendo seria. I “ragazzotti” desistettero e non fecero più stupidaggini. Il tricolore italiano tornò sulla caserma dei carabinieri, e il bandierone biancorosso scomparve".