Settant’anni fa Dien Bien Phu, una tragedia (anche) italiana 

L’evento. Martedì 7 maggio 2024 nell’anniversario della sconfitta francese in Vietnam, al Museo della guerra di Rovereto apre la mostra sugli italiani che hanno combattuto con la Legione straniera in Indocina



Bolzano. In queste ore, settant’anni fa, stava per cadere la piazzaforte francese di Dien Bien Phu. Isabelle, Beatrice, Dominque, Eliane... otto postazioni trincerate con nome di donna. Una valle larga e spoglia circondata dalla giungla, attraversata da un fiume che finisce nel Mekong. Vicina al Laos e nel cuore dell’armata Viet Minh nel nord dell’Indocina. Diecimila soldati del corpo di spedizione francese assediati da 50 mila uomini e donne dell’Esercito di liberazione del Vietnam ai comandi del generale Giap e sotto la guida di Ho Chi Minh, “Colui che porta la luce”. La battaglia, iniziata il 13 marzo 1954, si conclude il 7 maggio: 56 giorni di sangue e morte, migliaia di morti, feriti e dispersi da una parte e dall’altra. Dien Bien Phu entra così nei libri di storia: segna la fine - dopo 130 anni -del colonialismo francese in Indocina, la divisione sul diciassettesimo parallelo tra il nord comunista e il sud in orbita occidentale, e l’inizio dell’impegno americano nell’area che sfocerà in un’altra orribile guerra.

La mostra

Al Museo della Guerra di Rovereto martedì 7 maggio alle ore 18 si inaugura la mostra “Vietnam dimenticato” sui giovani italiani che hanno combattuto nella prima guerra d’Indocina con la Legione straniera francese. Si calcola siano stati dai sette ai diecimila negli otto anni del conflitto (1946-1954). Oltre un migliaio i morti e i dispersi. Centinaia i feriti e i disertori. In mostra saranno esposte immagini e testimonianze messe a disposizione da familiari dei legionari, in gran parte raccolti dal caporedattore dell’Alto Adige Luca Fregona, autore di due libri su questo argomento (Laggiù dove si muore e Soldati di Sventura editi da Athesia). Insieme alle foto, che provengono da 21 diversi archivi personali e di famiglia, a documentare l’esperienza degli italiani volontari nella Legione, ci saranno testimonianze autobiografiche e alcuni oggetti e documenti provenienti dalle collezioni del Museo. Uno spaccato di storia rimossa che racconta il dramma dei “soldati perduti”.

I soldati perduti

Ma chi erano questi ragazzi? Troppo facile etichettarli con il cliché del mercenario senza scrupoli o del legionario criminale in fuga da chissà quale passato. La realtà è molto più complessa. C’erano gli sconfitti della seconda guerra mondiale, fascisti in cerca di un approdo dove ricominciare. Ma anche partigiani comunisti che non riuscivano e reinserirsi nella società italiana ridotta in macerie. Nella gran parte, però, questi legionari erano giovanissimi migranti economici, espatriati clandestinamente in Francia alla ricerca di un lavoro, oppure in fuga dalle miniere del Pas de Calais dove le condizioni di vita erano orribili. Ragazzi nati dal 1929 al 1935, che spesso finivano ingenuamente nella maglie della Legione. Ai clandestini, arrestati e finiti in cella, i cinque anni di ferma nei Képi blanc venivano presentati come un’opportunità per evitare galera e rimpatrio. In cambio, al termine dell’ingaggio, avrebbero ottenuto la cittadinanza e anche un lavoro. Molti avevano un’idea romantica e avventurosa della Legione. E nessuna cognizione del fatto che la Francia fosse impegnata in Indocina in una feroce guerra di riconquista coloniale che aveva bisogno di carne da cannone possibilmente non francese: i legionari e le truppe coloniali (senegalesi, marocchini, algerini).

Dien Bien Phu

Furono tanti i legionari italiani uccisi, dispersi o sopravvissuti nel capitolo finale di Dien Bien Phu. La mostra racconta le storie di alcuni di loro. I bolzanini Rodolfo Altadonna e Alfredo Decarli, 22 e 19 anni, uccisi nella Pasqua del ’54 il giorno dopo essere stati paracadutati sulla piana, e due settimane dopo lo sbarco a Saigon.

O Luciano Antonelli, studente del liceo Galilei di Trento, scappato in Francia a 17 anni dopo una delusione a scuola. Sopravvisse ma senza un braccio. Così raccontò la sua storia al giornale Alto Adige nel 1955: «Appena arrivato nella conca, fui subito posto al comando di 24 uomini. Ogni giorno eseguivo azioni di rastrellamento verso la Cina e sulla strada coloniale. Mi inoltravo nelle boscaglie: a ogni passo era celata un’insidia. Si lottava col fango e con le mortali trappole dei Viet. I ribelli scavavano buche e poi ci mettevano picche micidiali. Dovetti più volte combattere all’arma bianca. Il terreno era seminato di morti. Il 27 aprile fui comandato a sostituire una sezione annientata dai viet e riprendere la posizione. Sei legionari dei 24 che comandavo caddero quasi subito. Ci ficcammo in una trincea dove posizionammo le mitragliatrici e aspettammo la notte. I Viet all’alba riuscirono a entrare nel fortino. Fu un combattimento disperato, corpo a corpo. Rimanemmo tutti sul terreno. Io e altri quattro eravamo feriti, i viet ci credettero morti, gli altri erano stati massacrati. Quando arrivarono i baschi rossi, i paracadutisti, a riprendere la posizione, ero quasi dissanguato. Mi portarono dietro le nostre linee, all’ospedale. Il dottor Grauwin mi praticò delle trasfusioni, mi serrò l’arteria ma non poté estrarmi una pallottola dal braccio sinistro né operarmi il tendine lacerato. Senza medicazioni riuscii comunque a resistere fino alla capitolazione del 7 maggio».

Antonelli venne fatto prigioniero. «Incolonnato con altri settemila uomini, ho camminato per 47 giorni. Il braccio sinistro intanto mi stava andando in cancrena. In un campo di rieducazione, gli ufficiali Viet ci insegnavano la dottrina comunista. L’armistizio e lo scambio di prigionieri favorì la mia sorte. Il primo agosto ‘54 fui imbarcato su una vedetta francese, il 19 settembre arrivai con un aereo a Parigi. Mi sottoposero diversi interventi chirurgici. Il braccio sinistro è ora pressoché inservibile, ma in compenso il calvario è finito. L’Indocina mi ha lasciato cicatrici nel corpo e nell’anima».

Il meranese Emil Stocker era nella ridotta Beatrice, la prima a cadere nelle mani viet il 13 marzo ’54. «Venivamo martellati dalla 312esima divisione di Ho Chi Minh - ricordava -, una delle più crudeli e vendicative. Sono arrivato a Dien Bien Phu nel dicembre ’53. Abbiamo disboscato tutto. Dovevamo portare tutto dal cielo. Via terra era impossibile. La foresta era infestata di viet. Persino i caterpillar sono arrivati col paracadute. I nostri aerei bombardavano col napalm. Bombe da 250 chili l’una. I francesi lo hanno usato in dosi massicce. Era tutta roba americana. Per noi era normale vedere la giungla bruciata dal napalm. Il mio battaglione è stato sciolto dopo Dien Bien Phu perché non esisteva più. Della mia compagnia su 120 siamo sopravvissuti in venti».

Bruno Pasquali, trentino di Romagnano, entrato nella Legione straniera dopo essere stato arrestato per essere fuggito dalle miniere di carbone, raccontava così la sua esperienza al giornale Alto Adige nel 1989: «Era una valle che assomigliava un po’ alla nostre del Trentino, circondata da basse montagne ricoperte di giungla. I Viet Minh, trasportando i mortai a spalla attraverso sentieri tagliati nella giungla, ci avevano completamente circondati. Di giorno i padroni eravamo noi, ma la notte era un inferno. Il 7 maggio i vietnamiti ci disarmarono, ci fecero spogliare, ci diedero una maglietta e un paio di calzoncini corti e, scalzi, camminammo per giorni e notti fino al campo di prigionia. Dopo un mese ebbi la fortuna di essere scambiato con prigionieri vietnamiti: uno di noi contro dieci di loro».

L’altoatesino Leopoldo Sölva, legionario paracadutista, Medaglia al valore, se la cavò per miracolo: «Il 21 aprile decollammo sui Dakota da Hanoi per Dien Bien Phu. Ero già al centesimo lancio, ma, al momento di buttarsi, avevo paura. Tutti vedevamo la morte davanti agli occhi. Pensavo: “Che idiota, perché non me ne sono rimasto a casa?”. Ma ecco che suona il campanello d'avvertimento. E giù da 1200 metri in 180 uomini proprio sulle linee dei Viet Minh. Per aria era un inferno. Nel buio non si vedevano altro che i proiettili traccianti delle mitragliatrici. Arrivato a terra, non capivo niente, non sapevo dov’ero. Mi sono nascosto in una buca, riparandomi dal freddo col paracadute. Sono rimasto lì, da solo, tutta la notte. La mattina, finalmente, è arrivato il mio capo sezione che veniva a prendermi assieme a quindici uomini. Erano tutti i miei vecchi commilitoni. Mi hanno chiesto se ero pazzo a tornare in quell’inferno. Del mio reparto, formato di 1.000 uomini ne erano rimasti vivi ancora 170; il resto morti, o peggio ancora, prigionieri. Lo stesso giorno siamo partiti al contrattacco dalla ridotta Isabelle assieme ai parà coloniali, i berretti rossi. In un paio d’ore abbiamo avuto 16 morti e 40 feriti, tra i morti anche il tenente capitano, saltato su una mina. Si aspettava di momento in momento il grande attacco del generale Giap. Fu la notte del 2 maggio. Dopo quattro ore di bombardamenti di artiglieria, arrivarono i viet, i volontari della morte, a migliaia. Non c’era niente da fare, ci siamo difesi disperatamente, ammazzandoli come formiche, ma avanzavano sempre...».

Gli italiani con i viet

A Dien Bien Phu c’erano anche degli italiani che combattevano contro i francesi, come il bolzanino Beniamino Leoni e il friulano Derino Zecchino. Entrambi ex partigiani (Leoni della Divisione Piacenza, Zecchini della Garibaldi), avevano disertato dalla Legione. Ricordava Derino Zecchini: «Ho portato il materiale per le truppe e ho scavato i tunnel. Ci si spostava continuamente nel nord Viet bac, nel nord Vietnam. Era una zona montagnosa verso la frontiera della Cina. Lì si trovavano i comandi e tutte le strutture dell’esercito Viet Minh, naturalmente non c’erano caserme, altrimenti per gli elicotteri francesi era facili colpirli, vivevano con i contadini». Finita la guerra, Leoni, dopo un anno in Cina con la speranza di tornare in Italia dai paesi comunisti, si riconsegnò ai francesi. Venne condannato per diserzione e scontò la pene al carcere Baumettes di Marsiglia. Zecchini rimase ancora alcuni anni in Vietnam prima di rientrare grazie all’intervento delle autorità consiliari italiane di Hong Kong.













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